Skip to main content

In lode dell’Ambasciatore Michael Giffoni, radiato e ora riabilitato. Troppo tardi

La vicenda potrebbe sembrare un “semplice” caso di malagiustizia nostrana, ennesimo frutto di una logica burocratico-amministrativa che – qui starebbe la novità – ha riguardato la diplomazia di carriera.  In realtà non solo si è distrutta la carriera di un uomo, si è anche privata la nostra politica estera di un validissimo ambasciatore che ancora molto aveva da dare. Il commento di Igor Pellicciari, professore ordinario di Storia delle Istituzioni e Relazioni Internazionali all’Università di Urbino

Ci sono tristi vicende umane e giudiziarie irrisolte per anni che, anche se non ci toccano direttamente, lasciano un senso di amarezza e di insicurezza che resta a lungo in agguato quando riaffiorano nella cronaca o nella mente.

L’idea che esse possano un giorno colpire a caso chiunque fa rabbrividire.

Tanto che quando si prova ad immedesimarsi nell’eventualità, il pensiero si ferma a metà della simulazione, gesto scaramantico per esorcizzarle.

Quando queste vicende si concludono con epiloghi positivi per gli accusati, è curioso come questi nonostante tutto sviluppino una sorprendente rassegnata serenità e addirittura un ottimismo verso il futuro. Non vi è rancore in loro, nemmeno nelle prime dichiarazioni a caldo.

Per paradosso, il senso di sdegno e di rivalsa è più presente ed esplicito in coloro che delle vicende in oggetto sono stati semplici spettatori passivi o indiretti.

Sono condizioni ben riassunte nella vicenda vissuta da Michael Giffoni, già Ambasciatore Italiano a Pristina destituito dall’incarico e addirittura radiato dalla diplomazia italiana sulla base di una serie di gravissime accuse da cui anni dopo è stato scagionato con formula piena.

Sintetizzata in questi termini, la vicenda potrebbe sembrare un “semplice” caso di malagiustizia nostrana, ennesimo frutto di una logica burocratico-amministrativa che – qui starebbe la novità – ha riguardato la diplomazia di carriera.  Ovvero una categoria che di suo attira poca compassione nel sentire popolare di questi tempi alimentato dal populismo ai sentimenti “anti” (casta, politica, impresa, vaccino, etc).

In realtà la formula della completa e totale assoluzione di Giffoni serve per ricordare le premesse personali e professionali di tutta la vicenda.

Che oggi rendono ancora più incomprensibile e gettano un’ombra sulla sua originaria messa in stato d’accusa e sull’accanimento (solo in parte giudiziario) che ne è seguito.

Tra i giovani più promettenti della Farnesina negli anni ’90, era arrivato all’incarico in Kosovo come il diplomatico italiano che meglio conosceva i Balcani Occidentali post-bellici.

Questa expertise, riconosciutagli anche negli ambienti accademici e nelle numerosi organizzazioni internazionali presenti nell’area, era stata maturata in Bosnia dove era stato Primo Segretario a Sarajevo, braccio destro dell’Ambasciatore Michele Valensise (in seguito Segretario Generale della Farnesina dal 2012 al 2016).

Fu in quegli anni che Giffoni optò per un modo di interpretare il suo ruolo molto più simile alla tradizione diplomatica americana (che egli, nato da famiglia italiana a New York, ben conosceva).

Ovvero, spendendosi sul campo, setacciando il difficile terreno bosniaco del dopo-Dayton e tessendo reti relazionali con la miriade di suoi livelli istituzionali anche a livello degli enti locali. Una eccezione tra i rappresentanti della Comunità Internazionale restii a muoversi fuori dalla comoda Sarajevo.

Inoltre, altra rarità, Giffoni si rendeva sempre accessibile e disponibile a collaborare con quanti si rivolgevano a lui, sia per la sua carica istituzionale che per la sua conoscenza del territorio.

Ha sostenuto attivamente un piccolo esercito di organizzazioni ed operatori di ogni nazionalità ed estrazione politica (tra cui anche il sottoscritto, all’epoca a capo di un progetto del Consiglio d’Europa nella città di Tuzla).

Quando iniziarono le sue vicissitudini giudiziarie questo gruppo di persone non mancò di fare sentire la propria voce in sua difesa, certo che i reati che gli venivano contestati in Kosovo non potevano essere a lui ascrivibili.

Se fosse stato mosso da desideri corruttivi, sarebbe stato molto più facile e profittevole occuparsi di traffico di visti in Bosnia nel dopoguerra piuttosto che (come sosteneva l’accusa) nella piccola e sovraffollata capitale del Kosovo, dove un segreto non sopravvive al talk-of-the-town dalla mattina al pomeriggio.

Senza considerare che anche uno studente alle prime armi di Diritto Internazionale sa che non spetta alle competenze di un Ambasciatore occuparsi della sezione consolare che emette i visti.

Ciononostante, si è deciso di non dare alcun ascolto a questi argomenti e di proseguire con un approccio burocratico dove la parte accusatrice era anche quella giudicante, portando all’esito scontato di assurgere a verità amministrativa quello che era un palese falso storico.

Conclusa l’esperienza Bosniaca, Giffoni, già accreditato nella Comunità Internazionale nei Balcani,  fu scelto per ricoprire uno degli incarichi in assoluto più importanti dell’epoca – Capo della Task Force UE per i Balcani istituita dal primo responsabile della neonata diplomazia di Bruxelles, Javier Solana (già Segretario Generale della NATO).

Nonostante l’importanza e lo status del ruolo, aveva continuato a muoversi secondo la sua personale ed efficace prassi diplomatica, apprezzata più all’estero che in patria dove i suoi ritmi eccessivamente dinamici hanno faticato a farsi accettare.

La visibilità ed il lavoro raccolto con la Task Force gli garantirono di bruciare le tappe della carriera ad arrivare al prestigioso incarico storico di essere primo Ambasciatore italiano accreditato in Kosovo. Per di più, quando il piccolo Stato balcanico, da poco ottenuta l’indipendenza, ancora conquistava l’apertura dei notiziari mondiali.

Alla luce di tutto questo, è eccessivo e probabilmente fuorviante ipotizzare che si sia deliberatamente tesa una trappola a Giffoni per interromperne una carriera in rapida ascesa.

Più probabile è che, inciampato “all’italiana” in un episodio di malagiustizia, gli sia stato fatale non potere contare sul sostegno e difesa della sua amministrazione, nella quale il suo modus operandi diplomatico gli aveva impedito di integrarsi a pieno.

A tal punto che il MAE non fece scattare nel suo caso quei meccanismi di difesa in genere quasi automaticamente riservati ai propri funzionari sotto accusa. Almeno fino all’arrivo del giudizio finale del procedimento che li riguarda.

Il punto è che, così facendo, non solo si è distrutta la carriera dell’Ambasciatore Giffoni.

Si è anche privata la nostra politica estera di un validissimo diplomatico che aveva ancora tanto da dare soprattutto la dove le principali risorse e sfide future aspettano il nostro paese.

Sul piano multilaterale europeo.


×

Iscriviti alla newsletter