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Quel tribunale per gli uiguri che fa infuriare Xi. Scrive Harth

Segni chiari che il muro di silenzio che stava intorno al popolo Uiguro ormai si è rotto definitivamente. Un coro sempre più ampio di voci si alza, non più impietriti ma rafforzati dalle continue minacce e ritorsioni di Pechino. Il commento di Laura Harth

In Italia si è percepito poco delle beghe internazionali di Pechino in queste ultime settimane, cortesia anche della telefonata tra il premier Mario Draghi e il leader del Partito comunista cinese Xi Jinping che ha permesso a quest’ultimo di reiterare attraverso il megafono della stampa italiana il suo appello alla comune promozione delle Olimpiadi invernali di Pechino 2022 – Cortina 2026. Peccato che nel mondo sono sempre più le voci che si alzino per un boicottaggio almeno diplomatico o mediatico di quel che i difensori dei diritti umani hanno rinominato i “Genocide Games”.

Tra l’appello lanciato dall’Unione degli Atleti europei per il rispetto del loro diritto di manifestare liberamente il loro pensiero durante i Giochi – e quindi di non essere abusati ai fini della propaganda cinese – alle crescenti perplessità politici in Canada circa la possibilità di garantire la sicurezza ai suoi atleti visto i tre casi attuali di “hostage diplomacy” con i quali Ottawa è alle prese, la frenetica ricerca di Pechino di trovare sponde amichevoli per la propaganda continua.

È un peccato che l’Italia ancora si presti al gioco, anche se poco sorprende visto che fu uno dei punti inclusi nel nuovo piano triennale Italia – Cina redatto da Via Bruxelles, perché volendo o meno, la questione dei crimini contro l’umanità nello Xinjiang acquista sempre più centralità nei rapporti bi- e multilaterali dei Paesi alleati con la Repubblica popolare.

Poco importa che Pechino e le sue ambasciate all’estero – incluso Roma – continuino a bombardare i canali social vietati nel loro stesso Paese con notizie “belle” sullo Xinjiang o vari White Paper sulla prosperità che il regime comunista abbia portato nella regione, ovviamente “nel pieno rispetto dei diritti dei gruppi etnici e religiosi locali”.

Peccato che non si presti alla verifica indipendente dei suoi proclami. Lunedì, l’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’Onu Michelle Bachelet ha dichiarato davanti al Consiglio Diritti Umani che Pechino ha continuato a negare ogni accesso significativo alla Regione per gli esperti indipendenti Onu.

Non cedendo ai patti fatti dall’Oms per la missione sulle origini del Covid, la Bachelet ha dichiarato di essere in procinto di pubblicare un rapporto indipendente sulla base delle vaste prove e testimonianze disponibili al di fuori del Paese. Visto la crescente – sebbene prudente – mole di lavoro già svolta da diverse procedure speciali negli anni scorsi, difficile che un tale rapporto rispecchi le risoluzioni lodevoli che Pechino fa regolarmente adottare grazie ai suoi Stati vassalli nel Consiglio.

Lo stesso 13 settembre si è concluso anche la seconda sessione dell’Uyghur Tribunal a Londra, un tribunale popolare composto da nove esperti internazionali che non emetterà sentenza ma un’opinione giuridica circa la natura e la scala delle violazioni massicce nello Xinjiang. Oltre al fatto che i lavori del tribunale rappresentano la più grande compilazione di testimonianze e rapporti mai raccolti sulla questione, la rabbia assoluta con cui Pechino ha e continua ad attaccarlo ne dimostra l’assoluto timore.

Da lettere al Primo Ministro britannico per esigere la chiusura del tribunale – un regime comunista ha ovviamente grandi difficoltà a comprendere l’indipendenza di cui gode un’organizzazione della società civile in un Paese democratico – alle sanzioni imposte su chiunque ne faccia parte o abbia contribuito ai suoi lavori, fino a minacce e gravi insulti dei suoi testimoni attraverso gli organi di stampa cinese e alle conferenze stampa dedicate dalle autorità dello Xinjiang e dal Ministero degli Esteri cinese.

Già nella primavera scorsa, intorno alla prima sessione del tribunale presieduto da Sir Geoffrey Nice – il quale guidò l’accusa contro Slobodan Milošević presso il Tribunale penale internazionale delle Nazioni Unite per l’ex Jugoslavia – Pechino non aveva risparmiato nessuna energia per intimidire e calunniare i testimoni.

Dalle sfilate forzate di familiari e conoscenti di attivisti all’estero davanti le telecamere, una pratica popolare e efficace del regime per indurre i suoi dissidenti all’estero al silenzio, alle peggior accuse non circostanziate. Da sottolineare in particolare la frequenza e il genere di “accuse” con cui ufficiali cinesi cerchino di screditare le attiviste all’estero durante conferenze stampa che a loro dire raggiungono oltre 200 milioni di spettatori nel mondo: “ebbe varie relazioni amorose; anche suo marito voleva divorziare da lei; tutti sanno che è una donna naturalmente lasciva; aveva diverse malattie veneree inclusa la sifilide; conduceva una vita decadente con terribili principi morali, fornicando con altre persone; …”

Una dimostrazione del netto contrasto che vi è tra le “belle immagini” che i canali social delle Ambasciate cinesi mostrano nel mondo e lo sdegno assoluto del regime ed i suoi ufficiali per la dignità umana e delle donne in particolare. Prove evidenti del fatto che le sue parole e “belle immagini” condivisi sui canali social delle sue ambasciate non sono credibili. Forse, insieme al crescente crack-down sul mondo femminista e quello LGBTQI+ sarà finalmente qualcosa per cui anche i sostenitore italiani del regime si possano indignare?

Intanto si sono indignati unanimemente i Parlamentare britannici, applaudendo gli Speaker della Camera dei Comuni e la Camera dei Lord che hanno barrato le porte di Westminster all’Ambasciatore Zheng Zeguang. La ragione? Le stesse sanzioni che hanno colpito l’Uyghur Tribunal e alcuni dei Membri della Camera per il loro lavoro pubblico svolto sul genocidio nello Xinjiang. Westminster non si fa più intimidire e chiarisce che l’azione prepotente di Pechino nei confronti di istituzioni democratici non sarà più tollerato.

Segni chiari che il muro di silenzio che stava intorno al popolo Uiguro ormai si è rotto definitivamente. Un coro sempre più ampio di voci si alza, non più impietriti ma rafforzati dalle continue minacce e ritorsioni di Pechino. Perciò, più che un evento olimpico, nell’immaginario collettivo Pechino 2022 segnerà il quinto anniversario delle politiche genocidari del regime comunista nello Xinjiang. Sicuri che vogliamo che l’Italia ne sia co-promotore?

Laura Harth


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