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Reddito di cittadinanza, la solidarietà va rispettata. Polillo spiega come

Se deve trattarsi di sussidio (comunque da ricalibrare), allora una qualche contropartita da parte del beneficiario vi dovrà pure essere. Una prestazione lavorativa minima oppure la partecipazione vera a corsi di formazione, sottoposti a un ricorso controllo pubblico che tenga anche conto delle carenze di mano d’opera. Questione etica, ancor prima che economica. La solidarietà è una grande cosa. Bisogna rispettarla

 

Maurizio Ferrero e Chiara Saraceno, il primo autorevolissimo editorialista del Corriere della sera, la seconda sociologa di fama e presidentessa del Comitato scientifico per la sua valutazione, hanno messo bene in evidenza il mistero e l’ambiguità del reddito di cittadinanza. Da entrambi ritenuto misura insufficiente per combattere la povertà. Do you remember la festa indecorosa sul balcone di Palazzo Chigi, all’indomani del varo della prima finanziaria del Governo giallo-verde?

Unanime il giudizio: protegge solo in misura disordinata. Premia i singoli, ma non le famiglie. Non tiene conto, nel determinare i parametri che ne consentano l’erogazione, delle profonde differenze tra il Nord ed il Sud. Il vincolo di presenza sul territorio nazionale (10 anni) per gli immigrati è troppo alto. Fin qui le critiche, le quali, tuttavia, hanno un unico segno. Si riferiscono, cioè, ad una politica dell’assistenza. Che tra l’altro non tiene conto degli altri strumenti esistenti nel variegato mondo del welfare italiano.

Ma era questo il motivo ispiratore del provvedimento? Non si diceva, ovviamente da parte dei suoi maggiori sponsor, i 5 Stelle, che si trattava di una poderosa misura rivolta all’inserimento nel mondo produttivo dei segmenti più difficili del mercato del lavoro? Non era stata forse questa la ragione per inventarsi i cosiddetti navigator: gli uomini della plancia di comando che dovevano garantire il costante raccordo tra domanda ed offerta di lavoro?

E che fine ha fatto il loro capo nonché presidente dell’Anpal, Domenico Parisi, l’americano, un curriculum di 18 pagine come quello di Giuseppe Conte, che Luigi Di Maio, allora ministro del lavoro aveva scoperto al di là dell’Atlantico? La verità é che si é gabellato il più puro assistenzialismo per una misura nobile: l’avvio al lavoro dei più fragili. Quegli ultimi che il mancato sviluppo aveva relegato ai margini della società.

Una pura finzione, ben sapendo che non funzionava, per il semplice fatto che non poteva funzionare. Doveva servire solo a compensare coloro che avevano votato il simbolo dei 5 Stelle, all’indomani di una campagna elettorale fatta di promesse e di spirito di rivalsa contro un establishment, che aveva pure le sue colpe. Ma erano pagliuzze nell’occhio, contro le travi presenti in quelli di una “nuova casta”, seppur di parvenu.

Sorprende solo che, a distanza di tempo, Giuseppe Conte non abbia meditato su questo piccolo scempio. Limitandosi a dire:¡No pasarán! Quando quei danari elargiti, senza alcun controllo effettivo, non solo hanno favorito chi non lo meritava. Ma, in qualche modo, specie nel mezzogiorno, hanno ridotto, invece di favorire, l’offerta di lavoro. Saremo pure diventati “una società signorile di massa”, come scrive Luca Ricolfi. Voglia di lavorare, secondo un vecchio detto romano, saltami addosso. Ma non è così che si può andare avanti, per le ragioni adombrate da lui stesso.

Ed allora resta il paradosso. Sia nelle campagne che nelle città, si registra una crescente carenza di mano d’opera. Lavori stagionali, occupazioni temporanee, certo non il massimo. Ma comunque sempre meglio di niente, di fronte ai morsi della povertà assoluta e relativa. Settori indubbiamente marginali, il più delle volte collocati in quella zona grigia che circonda il lavoro nero. Ma pur sempre una alternativa al semplice ciondolare da un divano ad una sedia a spese della collettività.

Mario Draghi, dichiarandosi a favore delle ragioni ch’erano alla base del salario di cittadinanza, ha colto la vera essenza dell’istituto. Altro che avvio all’impiego, si trattava di una semplice misura di lotta alla povertà. La cui sagomatura, tuttavia, risulta essere, per le ragioni dette in precedenza, del tutto impropria. Ed allora ben venga il referendum abrogativo su cui Matteo Renzi sta lavorando. Forse non si arriverà alla totale soppressione della norma. Sarà comunque una spinta potente al suo cambiamento.

Se si vorrà intervenire, come sarà pure necessario, si tratterà allora di avere chiaro nella testa l’obiettivo che si vuole perseguire. Senza infingimenti o scuse per indorare la pillola, ipotizzando scenari di comodo, che sono solo foglie di fico, spesso accompagnate da improbabili teorie sociologiche, come quelle relative alla dinamica di un processo tecnologico, che avrebbe già aperto le porte di quel “regno della libertà” di cui parlava Carlo Marx, quasi duecento anni fa. Comunque tale da giustificare un reddito universale, non più giustificato dalla fatica del lavoro.

Ma se deve trattarsi di sussidio (comunque da ricalibrare), allora una qualche contropartita da parte del beneficiario vi dovrà pure essere. Non stiamo ovviamente parlando dei casi estremi, citati da Ferrero (madri sole, persone con disabilità parziali, con deficit educativi e di salute). Ci riferiamo agli altri, che sono poi la stragrande maggioranza.

Ai quali, come avviene nella maggior parte dei Paesi europei, si può chiedere un piccolo contributo, una prestazione lavorativa minima oppure la partecipazione vera a corsi di formazione, sottoposti a un ricorso controllo pubblico che tenga anche conto delle carenze di mano d’opera. Questione etica, ancor prima che economica. La solidarietà è una grande cosa. Bisogna rispettarla. Soprattutto non sporcarla con comportamenti opportunistici.

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