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La sanità non è un costo, ma un valore prodotto. Parla Quici (Cimo)

Conversazione con il presidente del sindacato medici ospedalieri: “Professioni è la parola che manca al Pnrr: giusto spendere per nuove infrastrutture, un peccato non provvedere alle necessarie assunzioni. C’è poi quel fenomeno che definisco da Covid-show, fatto da gente che ha fatto fortuna parlando di virus senza essere mai stata in un reparto: una provocazione oggettiva”

La sanità non è un costo, ma un valore prodotto. La medicina iper burocratizzata ha progressivamente allontanato chi cura da chi deve essere curato.

Lo dice a Formiche.net Guido Quici, presidente della Cimo (sindacato dei medici ospedalieri) secondo cui la pandemia ha messo a nudo una criticità tutta italiana relativa alla carenza di organico, che purtroppo il Pnrr non risolverà. Tra l’altro la Cimo nel volume “Giuro di non dimenticare” ha raccolto alcune testimonianze di medici italiani che, con ironia e passione, hanno raccontato i tragici giorni della pandemia.

Anche i medici, oltre che cittadini e imprese hanno pagato un duro dazio post pandemia, con circa 450 vittime. Con quel libro che segnale lanciate?

Per noi un motivo di orgoglio. Si tratta della testimonianza di colleghi che hanno vissuto il Covid in prima persona, affrontando il virus sin dall’inizio in posizioni davvero difficili. Uno stress non solo professionale, ma anche emotivo e personale: le preoccupazioni sono emerse anche per i propri familiari oltre che per i propri pazienti, rispetto ad una malattia che non conoscevano. Non dimentichiamo che all’inizio non c’era cura, né indirizzo di terapia. Quel titolo vuole invitare non solo a non dimenticare l’accaduto, ma anche ad attenersi al giuramento di Ippocrate.

Passata la pandemia si rischia un velo di silenzio sul sistema?

C’è il rischio che si vada nel dimenticatoio, anche se nel frattempo qualcuno girerà un film o verranno pubblicati altri libri. Vanno bene iniziative simili, ma serve che l’intero sistema legato alle professioni sanitarie sia migliorato. C’è poi quel fenomeno che definisco da “Covid-show”, fatto da gente che ha fatto fortuna parlando di virus senza purtroppo essere mai stata in un reparto di degenza per capire come funziona davvero. Questa è una provocazione oggettiva rispetto ad un mondo che rimane legato alla solitudine del medico dinanzi al paziente e anche alla solitudine dello stesso paziente infettato, privato dell’affetto dei suoi cari.

Come escono dal post Covid il sistema sanitario nazionale e le professioni ad esso connesse?

In verità non sono molto ottimista, l’errore peggiore sarebbe quello di tornare al passato. Il Ssn è fatto di molti silos, a partire dalle Regioni, che procedono autonomamente. Non c’è un raccordo perché si è persa la centralità rappresentata dal Ministero della Salute. Lo dimostrano vari esempi, tra cui i tamponi, i vaccini, o le dichiarazioni dei posti letto occupati per poter cambiare colore. Ognuno ha fatto purtroppo quello che ha voluto, rimarcando così la necessità di rivedere il tema legato al Titolo V della Costituzione e all’autonomia differenziata.

Da dove ripartire?

Da una revisione seria del Titolo V, riaffidando alcune funzioni centrali al Ministero della Salute. E’ la base da cui partire. Quanto ai professionisti, osservo che ne escono sì con una grande esperienza lavorativa, riscoprendo finalmente il rapporto medico-paziente. Sul punto abbiamo condotto un’indagine con il Censis, da cui è emerso che l’83% degli italiani è convinto dell’esigenza di rafforzare proprio il rapporto medico-paziente. La medicina iper burocratizzata ha progressivamente allontanato chi cura da chi deve essere curato. Questo vincolo è purtroppo minacciato dalle politiche di partnership che si stanno verificando in alcune regioni come l’Emilia Romagna, dove si è inventata la figura del direttore assistenziale. Una sorta di parigrado del direttore sanitario che dovrà governare taluni processi pur non essendo un medico: carriere che si costruiscono in maniera impropria.

Il problema della carenza di organico sarà risolto con il Recovery Plan?

No. Professioni è la parola che manca al Pnrr: giusto spendere per nuove infrastrutture, ci mancherebbe, un peccato non provvedere alle necessarie assunzioni. La salute è legata anche all’economia. Lo abbiamo scoperto durante la pandemia: la sanità non è un costo, bensì un valore prodotto. Se il cittadino sta bene, funzionano la macchina economica e il pil. Gli obiettivi europei sono legati all’emergenza economica, sociale e sanitaria: ma su 235 miliardi solo 20 sono destinati alla sanità. Certamente positivi gli interventi di edilizia sanitaria per via della sismicità di alcuni nostre aree, ma mancano moltissime figure professionali mediche. Si dà per scontato che gli attuali modelli organizzativi siano validi e che necessitano solo di più risporse per essere potenziali: un errore. Se un modello territoriale è fallito, allora il potenziamento come avviene?

Quali strumenti ci sono e quali servirebbero?

In Italia si è parlato di tre gambe: il fondo sanitario nazionale, il Pnrr e il Mes. La politica ha scelto di usare le prime due. Il fondo ha avuto un incremento solo con l’arrivo della pandemia: dal prossimo anno avremo un più 1%, 1,2 miliardi annui, di cui il 15% verrà impiegato per mantenere il territorio. Con il miliardo restante andranno pagate l’assistenza ospedaliera, quella farmaceutica, le strutture private e anche i contratti di lavoro. Si pensi però che il contratto del comparto vale da solo 1 miliardo. Quindi mi chiedo chi dovrà usare per primo quei denari. Sul fondo sanitario nazionale è meglio non fare affidamento, mentre i soldi del Pnrr vanno alle tecnologie e alla digitalizzazione. Bene l’intelligenza artificiale, il device e la robotica, ma si rischierà poi di non avere personale. Tutti faranno a gara ad acquistare risonanze magnetiche e tac, ma poi non ci saranno medici e tecnici per utilizzarle. Le nuove risorse per il personale leggo che ci saranno dal 2027, quando ci troveremo già con diverse decine di migliaia di medici in pensione. Ci sarà un crollo.

Gli Stati Uniti sulla terza dose si sono mostrati più prudenti. L’Italia sembra avere fretta e l’ha già indicata per i più fragili. Ha fatto bene?

Ci sono 19 milioni di dosi depositate da utilizzare. Sui fragili concordo. Mi chiedo però, vista la presenza di varianti, se non sia il caso di attenere che si modifichino i vaccini in base alle stesse varianti.

@FDepalo

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