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Se la Pubblica amministrazione diventa smart, che fine fanno gli intermediari?

L’orizzonte nel pubblico e nel privato è una nuova organizzazione del lavoro che faccia uso delle nuove tecnologie con una nuova cultura del lavoro. Che metta al centro i clienti, o gli utenti. La loro soddisfazione, innanzitutto. Ma l’Italia si divide in Guelfi e Ghibellini e il tema dello smart working sembra diventato fideistico. Il commento di Antonio Mastrapasqua

L’Italia è un Paese per tifosi. E quindi più portato alle contrapposizioni che alle visioni condivise. Ogni occasione è buona per riscoprirsi Guelfi o Ghibellini. Spesso questo ci rende incapaci di vedere senza gli occhiali dell’ideologia di turno. Ora anche lo smart working sembra diventato un tema fideistico, di fronte al quale schierarsi ancor prima di capire. Soprattutto in relazione a chi lavora nella Pubblica Amministrazione (Pa).

Torno sul tema soprattutto per aprirne un altro: in una Pa che lavori veramente in smart working che ruolo avrebbero gli intermediari riconosciuti e autorizzati dalla Pa?

Un passo per volta. Sul tema dello smart working, il ministro Renato Brunetta ha avuto almeno due meriti: il primo è quello di aver detto autorevolmente che il “re è nudo”. Cioè che lo smart working non è lo smart working. È lavoro da casa. Citando e traducendo la voce “telecommuting” di Wikipedia in lingua inglese, il ministro ha ricordato che la comunità internazionale considera lo “smart working all’italiana” una sorta di self service working.

Il presidente dell’Aran, Antonio Naddeo, aprendo il tavolo di confronto con i sindacati, altrettanto autorevolmente, ha ribadito che, “per quanto riguarda il dibattito sullo smart working e sul rientro in ufficio del personale del pubblico impiego, credo che le polemiche sul ruolo della contrattazione siano del tutto infondate. Il contratto deve regolare, per la prima volta, gli istituti normativi ed economici del lavoro agile, ma non dove, come e quando fare il lavoro agile. Quello svolto fino ad ora è stato in pratica uno strumento di protezione del lavoratore a fronte della pandemia, adesso occorre riportarlo progressivamente al suo vero ruolo: uno strumento possibile di organizzazione del lavoro”.

Il secondo merito del ministro Brunetta è quello di aver rimesso al centro del dibattito il cittadino e le imprese, utenti della Pa, che in questo periodo di emergenza sanitaria e di improvvisata riorganizzazione (quindi nessuna vera nuova organizzazione) del lavoro, hanno avuto modo di esprimere ragionevoli lamentele, avendo “sperimentato (comprensibili) ritardi nella loro interlocuzione con le amministrazioni pubbliche, a causa della mancanza di personale sul posto di lavoro”.

Inutile e dannoso scordarsi quanto peso abbiano ancora gli archivi cartacei nelle Pa (e la carta non si consulta da remoto se non si è passati a un archivio digitalizzato). Inutile e dannoso dimenticarsi che le diverse Pa vivono come monadi senza comunicazione; la cosiddetta interoperabilità è condizione ineliminabile di digitalizzazione e quindi premessa necessaria per ogni lavoro da remoto (prima ancora che diventi “agile” o “intelligente”).

Potremmo continuare nell’elenco delle condizioni mancanti per parlare di smart working, soffermandoci anche sulla necessaria evoluzione – nel privato così come nel pubblico – di una nuova cultura della dirigenza, chiamata a riorganizzare il lavoro delle risorse umane per obiettivi; anche in questo caso è una condizione necessaria per introdurre flessibilità, autonomia e responsabilità nel lavoro, per farlo diventare “smart”.

L’orizzonte resta quello, nel pubblico e nel privato: una nuova organizzazione del lavoro che faccia uso delle nuove tecnologie con una nuova cultura del lavoro. Che metta al centro i clienti, o gli utenti. La loro soddisfazione, innanzitutto.

In questo orizzonte sarebbe utile chiedersi, per tempo, che ruolo (residuale?) potrebbero avere tutti gli intermediari autorizzati. Se il lavoro della Pa potesse veramente trasformarsi in smart working, dovremmo pensare che innanzitutto gli utenti saranno chiamati a fruirne, in maniera “smart”, quindi da remoto, in mobilità, con il semplice uso dei device disponibili, dal pc allo smartphone. È la logica dello “spid”, delle identità digitali. Ma in questo orizzonte la Pa dovrà mettere in conto di rinunciare alla stampella – da sempre invocata, spesso pretesa – degli intermediari (dai Caf ai patronati). Con beneficio per la spesa pubblica, certamente, ma con una doverosa razionalizzazione che non preveda ridondanze inutili e costose.


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