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Con i talebani serviranno bastone e carota. Scrive l’amb. Marsilli

Di Marco Marsilli

Con il regime dei talebani si dovrà adottare la classica tattica “del bastone e della carota”, con lo sblocco delle dotazioni finanziarie da attuarsi in maniera progressiva (e sempre reversibile) sulla base di impegni formali a forme di collaborazione internazionale, ivi compresa la prioritaria tematica del terrorismo. L’analisi dell’ambasciatore Marco Marsilli, consigliere scientifico della Fondazione Icsa, già rappresentante permanente presso il Consiglio d’Europa e direttore centrale alla Farnesina per le questioni globali e i processi G8/G20

 

La scorsa settimana, in quello che a più di un osservatore è sembrato un esercizio di “muscle flexing” piuttosto tardivo, l’Unione europea ha formalmente rese note le cinque precondizioni “non negoziabili”, indispensabili per un “avvio di contatti” con i nuovi padroni di Kabul. Si tratta, precisamente: di rendere immune il Paese dalla costituzione di basi operative per il terrorismo; di rispettare i diritti umani, in particolare per quello che riguarda la popolazione femminile e i minori; di dar vita a un governo “inclusivo e rappresentativo”; di concedere libero accesso agli aiuti umanitari; di permettere a tutti quelli che lo desiderano, compresi gli afghani, di lasciare indisturbati il Paese.

Ora, sulla base dell’attuale situazione sul terreno e dei rapporti di forza, di queste clausole alcune appaiono di problematica, se non impossibile, realizzazione. Per quello che riguarda la seconda di esse, il rispetto dei diritti umani, l’ ufficio ginevrino della Alta commissaria preposta al settore, Michelle Bachelet, ha già dovuto ripetutamente condannare, sulla base di incontrovertibili evidenze, le “esecuzioni sommarie, le rigidissime misure restrittive applicate a donne e minori, i divieti di frequentare scuole, gli arruolamenti forzati di giovani a fini militari” messe in atto dalle autorità talebane sin dall’indomani della presa di potere.

Passando alla successiva, afferente al governo di annunciata (benché sin qui rimandata) prossima formazione, l’avvenuta eliminazione dell’ultima sacca di resistenza, quella coraggiosamente attuata nella valle del Panshir da Ahmad Shah, figlio dell’ omonimo, storico oppositore del Movimento, ha di fatto svuotato di ragion d’essere la possibilità, in un primo momento adombrata dai settori più moderati del Movimento, dell’inserimento nel nuovo esecutivo di un paio di elementi ad esso “esterni”. Per le rimanenti tre clausole, le basi per un avvio di trattativa sembrerebbero un minimo più presenti, dato ovviamente una volta di più atto della estrema complessità delle stesse e di margini di manovra davvero molto esigui. Tutto (o moltissimo) ruota attorno all’aspetto dell’assistenza finanziaria generosamente concessa per lunghi anni dall’ Occidente al “vecchio Afghanistan”, quello guidato, con i risultati noti, prima da Karzai e poi da Ghani, che, secondo stime attendibili, rappresentava oltre la metà del prodotto interno lordo.

Nonostante il prevedibile incremento nella produzione di oppiacei (la principale voce di reddito afghana) e la scontata riduzione delle spese militari (il numero di talebani sotto alle armi è molto più ridotto rispetto alle pletoriche forze “lealiste”), non vi é dubbio sul fatto che anche il nuovo regime non possa, per sopravvivere, che dipendere dagli aiuti oltre confine. Dal momento che Stati come Cina, Russia e Iran, in linea di massima solidali, o comunque non ostili, all’Emirato, non sembrano peraltro intenzionati a risollevare l’economia di un Paese rientrante nella classifica dei dieci meno sviluppati al mondo, gioco forza è riconoscere il possesso, da parte di Stati Uniti ed Unione Europea, di leve non secondarie per richiedere, e auspicabilmente conseguire, migliorie da parte dei Mullah.

Quanto precede sia per quello che concerne l’accesso agli aiuti umanitari, sia per assicurare, quando intenderanno farlo, la libera partenza delle centinaia di “occidentali” (fra i quali si contano circa trenta italiani) rimasti volontariamente in Afghanistan in quanto in servizio presso organismi multilaterali e Ong sanitarie. Che analoghe regole possano applicarsi anche agli afghani “collaborazionisti” ancora in patria sembra, viceversa, tutt’altro che scontato.

Da questo punto di vista la tattica “del bastone e della carota” sembrerebbe particolarmente indicata, con lo sblocco delle dotazioni finanziarie attualmente congelate da attuarsi in maniera progressiva (e, ovviamente, sempre reversibile) sulla base di impegni formali della dirigenza talebana a forme di collaborazione internazionale, ivi compresa la prioritaria e imprescindibile tematica del terrorismo.

La decisione adottata da vari Paesi dell’Ue, fra cui l’ Italia, di trasferire a Doha, dove opera il vertice politico del Movimento, le proprie rappresentanze diplomatiche già insediate a Kabul appare misura opportuna, proprio per il fatto di consentire condizioni “ambientali” migliori, rispetto all’ormai infrequentabile capitale “naturale”, e dunque potenzialmente in grado di influire positivamente sulla tenuta di negoziati.

Qualche giorno prima dell’Unione europea, anche le Nazioni Unite avevano messo faticosamente a punto una sorta di catalogo di misure necessarie a consentire il dialogo con i nuovi uomini forti afghani. A dimostrazione della farraginosità dei meccanismi decisionali onusiani, né la Cina né la Russia avevano votato il documento, limitandosi a una “astensione” in realtà indicativa di disapprovazione. Su questo sfondo, è certamente significativo che Pechino e Mosca siano state sin dall’insediamento dei talebani a Kabul correttamente indicati dal nostro presidente del Consiglio quali attori ineludibili in vista della convocazione di un tavolo formale (quello del G20) ritenuto il solo in grado di produrre qualche, anche modesto, passo in avanti.

Il fatto che il premier Draghi sia parso negli ultimi giorni meno “ vocale” sull’ argomento rispetto al passato, non significa certo, a quanto è dato conoscere, l’affievolimento da parte sua di un obiettivo che gli sta indubbiamente a cuore, quanto la constatazione di quelle difficoltà, tanto di ordine procedurale che sostanziale, da noi già messe in evidenza in connessione con l’ attività di quel foro multilaterale di cui l’ Italia detiene la presidenza in una fase cruciale per gli equilibri strategici della tormentata regione centro- asiatica.

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