La storia vera di Abby Johnson, prima direttrice convinta di una clinica abortista, poi convertita al pro-life. Il film, definito di “propaganda politica” da molti giornali, è stato accusato di falsare la corretta pratica dell’aborto, “meno rischiosa del parto”. La stampa pro-vita, in minoranza, difende il film. “Unplanned”, costato 6 milioni di dollari ne ha incassati 21. Ne parla a Formiche.net lo storico e critico Eusebio Ciccotti
Unnplanned (Non pianificato, 2019), di Cary Solomon e Chuck Konzelman, tratto da una storia vera, ripercorre la vicenda privata di una giovane donna, Abby Brannam (nella vita Abby Johnson; nel film la brava Ashley Bratcher), laureata in psicologia, felicemente sposata con Doug (l’attento e riservato Brooks Ryan), e con una bellissima bambina, Grace, “one and done” (“uno [figlio] è pure troppo”) che, entusiasta della pratica dell’aborto, grazie alla sua intelligenza e capacità comunicativa, compie una rapida carriera all’interno di una clinica per aborti (“Planned Parenthood”), sino a diventarne una figura apicale. Razionale, sorridente, gentile, bugiarda, come richiede il suo job, accoglie e incoraggia tutte le clienti, anche le molte teenagers, che giungono in clinica con lo sguardo perso e terrorizzate per l’operazione. Ma, un giorno come un altro, Abby, consulente psicologa e serena procacciatrice, ormai direttrice, è chiamata dal medico in sala chirurgica, per la prima volta, per insufficienza di personale. Deve assistere il medico e le altre due infermiere per un aborto: subisce uno shock. Pone in discussione la sua vita, la sua visione sulla “semplice” interruzione di una gravidanza che “prende solo pochi minuti” (così aveva rassicurato, un giorno, la tremante quattordicenne Christina: la ragazza uscì dopo tre ore di intervento, viva per miracolo).
Diventata una manifestante, unitasi a una pacifica e molto attiva organizzazione pro-life della città, “Coalition for Life”, dovrà affrontare anche un delicato processo per presunti danni economici e di immagine alla clinica.
Unplanned inizia, tramite un flashback, facendoci vedere Abby Brannam, anni prima mentre giunge entusiasta al College. Assaporata la libertà dell’adolescente lontano da casa, nel suo appartamentino pagatole dai genitori, si fidanza subito, con un ragazzo, Mark, di dieci anni più grande di lei. Per sentirsi più “adulta”. Non è innamorata. Infatti definisce la storia “non importante”.
Abby rimane incinta. Mark non fa altro che suggerirle, distrattamente, “la migliore soluzione, qui a Houston”. Ossia la accompagna ad abortire in una clinica privata, come si accompagna qualcuno dal parrucchiere. Essendo Mark, tra l’altro, uno spiantato, non la può aiutare neanche per gli 800 dollari necessari per l’intervento.
Laureata, eccola che lavora in clinica, come psicologa. Cheryl, la direttrice, segue una logica cartesiana. Delle donne hanno bisogno di abortire, la sua clinica, applicando la normativa vigente, garantisce un intervento di alta professionalità e, soprattutto, a buon prezzo. Nella sua visione ella si sente addirittura chiamata eticamente ad una missione, ossia aiutare tutte quelle donne che non desiderano avere un figlio per vari motivi e non vanno abbandonate. Cheryl si sente una buona samaritana. E, nello scontro con Abby, non ancora convinta, dopo una conferenza, le ricorda che questi è un’illusa: “Noi siamo una clinica per aborti! Americans wont abortion!”. Anche se qualche adolescente rischia la morte.
La ragazza Christina, amica di famiglia, si presenta alla clinica accompagnata dal padre, Rob. È spaventata da quello che l’attende. Quando è da sola con Abby confessa, sottovoce, che lei non avrebbe voluto abortire ma così vogliono i suoi genitori. E lucidamente aggiunge: “E se invece stessi commettendo uno sbaglio?”. Abby, che in questa fase della sua vita oltre che lavorare in clinica come consulente, è una convinta sostenitrice dell’aborto, rassicura, ipocritamente, con un finto sorriso: “Non potresti studiare e crescere un bambino”.
Una donna arriva in clinica per abortire. Ha un colloquio con Abby. Appare indecisa. Chiede ad Abby se l’embrione non sia già troppo grande, se non sia già in qualche modo un bambino. Abby, risponde sicura e con il volto sereno, che certamente il feto non è ancora un bambino. La donna appare non convinta, e delicatamente chiede: “Ma soffrirà?”. Qui Abby supera se stessa in ipocrisia, sfoderando un sorriso: “Assolutamente no! È un tessuto fetale che non potrà sentire niente! Stai tranquilla”.
I registi pongono in contrasto l’interessato aiuto verso gli “altri”, ossia verso i possibili clienti, di chi pianifica l’aborto come piano economico industriale (il progetto della Company Planned Parenthood, che intende edificare una nuova sede di oltre 7000 metri quadri) con il disinteressato offrirsi per l’altro, considerato come persona, ad opera dei gruppi pro-life. Questi attivisti pro-life dimostrano in silenzio e pacificamente al di fuori della clinica abortiva. I due principali organizzatori sono una serena coppia di giovani fidanzati, Shawn e Marilisa.
Abby matura pian piano una sua nuova visione scaturita dopo lo shock avuto mentre assisteva come infermiera all’aborto. Aderirà alla organizzazione pro-life che porterà in tribunale la clinica, la quale verrà chiusa per aver praticato aborti anche dopo 120 giorni.
Unplanned sceglie il racconto in flashback, con voice over, della protagonista Abby, che narra cosa le è accaduto. Si parte da un momento che è già nel passato, il giorno in cui Abby, ormai direttrice della clinica, ha assistito per la prima volta a un aborto in sala chirurgica. Poi vi è un salto indietro di “otto anni”, successivamente, ancora un salto più indietro, di “due anni” (periodo del college, il primo matrimonio, i due aborti, ecc.). Si torna al tempo passato medio, quello del giorno in cui Abby assiste all’aborto, per poi continuare il racconto del passato più recente, sino alla sentenza del tribunale. Tale montaggio da scatola cinese a ritroso, ossia un flashback che si apre su un successivo flashback (inaugurato da Tradimenti, 1983, di David Jones, su testo di Harold Pinter), garantisce al film una innegabile suspense, utile ad evitare il prevedibile racconto dell’analessi classica.
I registi Solomon e Konzelman non rinunziano ad alcune metafore e simboli. La piccola Grace, figlia di Abby e Doug, tiene in mano un bambolotto con gli occhi chiusi. Rimanda ai bimbi non nati che la madre, che ha dato la vita a Grace, contribuisce a non far nascere? È quel fratellino che Grace, inconsciamente, attende, di cui parla, e che Doug sicuramente desidera, ma che Abby si ostina a non volere, prendendo regolarmente la pillola?
A delimitare la clinica e il parcheggio dal fuori vi è una cancellata. Non sappiamo (e non è neanche importante saperlo) se nella realtà fosse così oppure comparisse un muro di cinta. La cancellata separa, chiude, ma, al contempo, consente, a chi lo desidera, una comunicazione (guardare, parlare, pregare). Il “chiuso” delimitato dal cancello rimanda a chi non ha bisogno di relazionarsi con l’altro, a chi possiede la verità neopositivista e non accetta il dialogo. Anche il cancello, nella scena finale, verrà rimosso.
Alcuni medici hanno contestano la scena non veritiera dell’aborto, in cui si parla di “un feto di 13 settimane”, ma che appare più grande. Sostengono che un feto non può opporsi alla soppressione come il film “disonestamente” fa vedere, tramite effetti speciali, in quanto “il feto non ha alcuna capacità intenzionale”. Insomma, i registi hanno barato per portare avanti tesi politicamente antiabortiste. C’è poi il discorso del lutto da elaborare, che molte donne, in ogni parte del mondo, denunziano. Di cui i pro-aborto non vogliono parlare. Cui il film accenna nella vita della protagonista. La questione dell’aborto, dunque, non è chiusa per sempre.
In Italia la legge del 28 maggio 1978, n.194, garantisce l’aborto entro 12 settimane. Da anni vari comitati pro-vita intendono abolire la “legge 194”. Per i pro-aborto è una conquista della donna, del rispetto della sua libertà. Nessuno, sostengono i pro-aborto, può costringere qualcuno a diventare mamma contro la propria volontà. Anzi, il periodo per abortire va aumentato. Per i pro-vita invece il nascituro non può difendersi. Il tema appare avvolto nell’aporia.
Ognuno rimarrà legato alle proprie convinzioni. Però, proviamo a vedere Unplanned di Chuck Konzelman e Cary Solomon. Per accettarlo, per respingerlo. Per confrontarsi.