L’intelligence è diventata il capro espiatorio della débacle in Afghanistan. Troppo semplice, e conveniente, puntare il dito solo sugli 007 per una vicenda di dimensioni planetarie. L’analisi di Mario Caligiuri, presidente della Società italiana di intelligence
Nella vicenda del ritiro degli americani dall’Afghanistan, una delle affermazioni più ricorrenti è stata il fallimento dell’intelligence, considerata tra le principali responsabili della vicenda.
A prescindere dal fatto che tutta la società occidentale si fonda sul mito del capro espiatorio, al quale addossare le responsabilità per fare in modo che la società sopravviva occorre approfondire tale aspetto senza pregiudizi.
Tanto per cominciare, andrebbe precisato che fin dall’origine di questo conflitto, l’intelligence è stata strumentalizzata in quanto indotta a presentare prove false per consentire l’intervento armato contro Saddam Hussein.
In secondo luogo, generalmente si ignorano quali siano state le effettive notizie che l’intelligence ha inviato alla Casa Bianca, così come non conosciamo l’uso che ne è stato fatto.
Quindi davvero l’intelligence è il capro espiatorio sul quale scaricare una débâcle planetaria? Leggendo il sito WikiLeaks in relazione al periodo tra gennaio 2004 e dicembre 2009 emerge invece l’esatto opposto.
Non a caso, il tracollo afgano era stato puntualmente evidenziato dall’intelligence: ” Più di 90 mila documenti e rapporti segreti militari americani sulla guerra in Afghanistan [rivelano] una mole di notizie finora tenute nascoste: secondo l’intelligence americana il conflitto afghano è fallimentare”.
Se dobbiamo poi concentrarci sulla lotta al terrore, che potrebbe essere una delle conseguenze della conquista talebana di Kabul, va ribadito che dopo quello di Barcellona dell’agosto del 2017, in Europa non sono più avvenuti attentati significativi. Questo significa che l’intelligence sta funzionando?
Di sicuro, proprio in relazione agli attacchi dei fondamentalisti nei paesi del vecchio continente negli anni 2015-2017, si è avuta una inversione di tendenza nell’interpretazione dell’intelligence, considerata come uno strumento decisivo per difendere le democrazie dal terrore.
Dal mio punto di vista, le attività dei Servizi di informazione sono talmente delicate e sensibili che sarebbe meglio evitare di trasformale in oggetto di polemiche politiche e di dibattito pubblico, perché c’è il pericolo di snaturarne la funzione.
Va però necessariamente precisato che il controllo parlamentare è determinante, per evitare le non poche deviazioni che si sono registrate in passato, ma nello stesso tempo occorre creare le condizioni per contrastare ad armi pari gli avversari delle democrazie.
Pertanto, sarebbe preferibile che l’intelligence non venisse sistematicamente chiamata in ballo senza avere prove certe ma in base a visioni ideologiche. Infatti, la percezione prevalente di questo fondamentale settore dello Stato oscilla tra il luogo oscuro delle trame del potere e l’arma segreta delle democrazie, alla quale demandare la soluzione di ogni problema.
Come andremo a incominciare
In un simile contesto è fondamentale che la politica, i media e le università concorrano a formare nella opinione pubblica una meno imprecisa funzione dell’intelligence, come nello stesso tempo i governi democratici dovrebbero dotare di regole, strutture e risorse avanzate questi settori strategici, che rappresentano la continuità delle istituzioni democratiche a fronte delle cangianti maggioranze politiche.
Appunto perchè l’intelligence si potrebbe configurare come il cuore profondo dello Stato, la politica ne ha il ruolo di indirizzo e pertanto la qualità delle élite pubbliche è fondamentale.
Come più di mezzo secolo fa il Vietnam, l’Afghanistan ha ancora dimostrato la sottovalutazione della cultural intelligence, la cui imprecisa comprensione potrebbe essere alla base del fallimento della dottrina dell’esportazione della democrazia. A riguardo è molto interessante una recente riflessione di Alberto Ventura sul positivo intervento italiano in Libano negli anni Ottanta
Non è solo un banale problema di Intelligence linguistica, ma di comprensione culturale delle aree del mondo dove si interviene, che non può essere demandata alla sensibilità di singoli operatori ma che richiede una conoscenza di lingua, tradizioni e mentalità dei popoli tra cui si sta operando.
Da un lato, occorre concentrarsi sulla conoscenza dei contesti operativi, ma dall’altro c’è chi propone una globalizzazione dell’intelligence per affrontare i problemi di preoccupazione universale.
Le recenti affermazioni di Ursula Von der Leyen vanno proprio nella direzione di cominciare a ragionare su una possibile intelligence europea, in considerazione dell’assunto che “se gli stati membri non condividono le loro informazioni a livello europeo, siamo destinati a fallire. È essenziale quindi migliorare la cooperazione in materia di intelligence”.
Nello stesso tempo occorre prestare la massima attenzione verso la cyber intelligence, in quanto nel 2030 tutto il pianeta potrà essere collegato a internet, con l’intelligenza artificiale che segnerà in modo profondo l’evolversi dell’ordine mondiale.
Tutto questo però non fa altro che porre in evidenza il fattore umano, come dimostra quello che potremmo definire “The Israel Model”, in quanto in Israele i Servizi stanno assumendo contemporaneamente hacker per carpire le informazioni nei recessi della Rete e laureati in filosofia per interpretarle. E in entrambi i casi si tratta di figure umane.
Quali possono essere, dunque, le nuove frontiere dell’intelligence? Il contrasto alla criminalità e al terrorismo, la salvaguardia del clima, la prevenzione delle pandemie. Peraltro, tutti temi sostanzialmente previsti in anticipo dall’intelligence. E sullo sfondo si profila uno scontro tra intelligenze dagli esiti quanto mai inquietanti e incerti.
*** Fine seconda parte – Continua ***
Il testo è contenuto all’interno del volume in corso di stampa: Alessandro Ceci (a cura), Afghanistan. Cambio di paradigma politico, Sossella, Roma 2021.