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First use. L’arma (nucleare) di Biden per far tremare la Cina

La dottrina nucleare first-use degli Stati Uniti è davvero cosi minacciosa come denunciano gli ultras liberaldemocratici del Congresso? Joe Biden sta facendo un assist a Putin e Xi, o sta imboccando l’unica strada credibile per la deterrenza? Il commento del generale Mario Arpino

La Cina cresce con costante inesorabilità. Cresce, si estende e si arma. Ciò le consente spunti di arroganza che sono una sgradevole novità per chi si era ormai abituato ad una sorta di gentile soft power che allarmava, certo, ma non così tanto da “spaventare”.

Sono due verbi così distanti l’uno dall’altro che c’è di mezzo il mare. Che non è solo Indo-Pacifico, ma anche qualcos’altro, molto più vicino a noi. È per questo che gli Alleati vicini e lontani degli Stati Uniti cominciano a “spaventarsi”, probabilmente molto più per il timore di essere costretti a nuovi esborsi piuttosto che per paura della Cina. Senza, per ora, arrivare al “panico” che potrebbe subentrare qualora il Congresso, ormai a maggioranza liberal-repubblicana riuscisse a convincere il presidente Joe Biden contagiando il suo entourage più spinto con l’idea che la dottrina nucleare degli Stati Uniti sia eccessivamente minacciosa per rimanere, senza modifiche, nella panoplia di un Paese così deliziosamente democratico come si sono autoconvinti di essere.

Ma la dottrina nucleare degli Stati Uniti è davvero cosi minacciosa come denunciano gli ultras liberaldemocratici del Congresso? E le modifiche rassicuranti che propongono lo sono davvero cosi tanto da incontrare la disapprovazione degli stessi militari Usa ed “allarmare “ gli Alleati vicini e lontani?

I dubbi ci sono, perché, alla fin fine, potremmo anche scoprire che si tratta di mero esercizio di semantica. Tanto più che l’attuale dottrina è così ricca di sfumature da impedirne ogni seria valutazione in materia di “livello di minaccia” apportata. Cosa che, a sua volta, è assai diversa, ma comunque compresa, nel più noto (ma anche più volatile) concetto di “deterrenza”. Alle origini del nucleare, ma perfino nei lunghi anni di Guerra Fredda, era tutto più semplice e lineare. C’era una guerra in bilico che non riuscivano a sbloccare? “First Use” ad Hiroshima e Nagasaki, e l’hanno subito vinta. Ma solo perché ancora non c’era nessuno in grado di replicare. Condizione felice, oseremmo dire, che non si ripeterà mai più: oggi, infatti, di queste bombe ce ne sono in giro per il mondo diverse migliaia.

Nel corso della Guerra fredda, per scoraggiare un’aggressione era nato il concetto di “dissuasione”, il quale, come spiega la Treccani, costituisce “…l’impalcatura concettuale e la giustificazione ideologica” della corsa a questi armamenti iniziata nel primissimo dopoguerra. Nel 1948, durante il blocco sovietico di Berlino, Gli Usa avevano già predisposto in Gran Bretagna un aeroporto che rendeva possibile colpire l’Urss con bombe nucleari, ormai principale strumento strategico dell’amministrazione democratica di Truman.

Nel 1949 anche i sovietici avevano già sperimentato il loro ordigno, seguiti da UK (1952), Francia (1960) e, già allora, dalla Cina (1964). Parlando dell’evoluzione della dottrina nucleare, già nel 1952 la presidenza Eisenhower (repubblicana) lanciava la strategia della “rappresaglia massiccia”, seguita dalla dottrina cosi detta MAD (da tradursi letteralmente con “folle”, ma invece acronimo di mutual assured destruction).

Questa rincorsa era destinata a durare vari anni, fino a quando, per limitare l’aumento delle potenze nucleari e degli arsenali, nel decennio dopo la fine degli anni ’60 vennero sottoscritti tra le parti vari trattati di non proliferazione. Una nuova fase della deterrenza, appositamente studiata dalla presidenza repubblicana di Ronald Reagan per anemizzare economicamente l’Urss, si fece strada dopo un’altra decina d’anni, con l’installazione degli euromissili ed il progetto dello Scudo Spaziale. Un percorso che ha portato ai nuovi trattati START I (1991) e START 2 (1993), firmati da Gorbacev e Bush sr.

Con questo arriviamo alle turbolenze dottrinali dei giorni nostri, quando diversi trattati, e quindi anche le rispettive dottrine di sostegno, sono state invalidate unilateralmente, e non a torto, da Donald Trump. L’impossibilità di coinvolgere la Cina, infatti, li stava trasformando in lacci e lacciuoli che legavano ai contendenti le mani in modo inaccettabilmente asimmetrico.

Riletta un po’ la storia, possiamo ritornare ai quesiti che ci eravamo posti all’inizio: la dottrina nucleare Usa (il first use non viene mai esplicitamente escluso) è davvero così scandalosa per uno Stato democratico? I liberaldemocratici del Congresso, promotori di una nuclear posture review, stanno davvero minando la credibilità della deterrenza quando spingono per una dichiarazione esplicita di “no first use “ da parte del Presidente?

Quest’ultimo compirebbe davvero un grave errore se, pur negando l’eventualità di usare per primo l’arma nucleare, accettasse di prendere in esame, e poi dichiarare, una dottrina del tipo “sole use” (ovvero, restringendo il campo al solo utilizzo dell’arma in circostanze uniche e ben identificate)? Hanno ragione gli Alleati che si “allarmano” (Francia, Gran Bretagna e Germania in Europa, con Giappone ed Australia nell’altro emisfero)? Sarebbe davvero un “grosso regalo a Cina e Russia, tale da renderli baldanzosi e ancora più arroganti”? La lobby contraria ad un’attenuazione della minaccia dell’uso del nucleare, ci spiega il Financial Times, è stata particolarmente attiva nel corso della visita del segretario Usa per la Difesa Lloyd Austin nel corso della visita al Quartier Generale della Nato all’inizio di ottobre.

A nostro modestissimo avviso, considerato che, come ci insegna la Storia, una dottrina davvero vincolante sull’uso del nucleare non c’è mai stata, qualsiasi sia, la decisione (o la non decisione) di Joe Biden è irrilevante. In caso di pericolo immediato, sarà sempre e solo il CINC, il Comandante in Capo, a decidere. E, a prescindere da lacci o lacciuoli, negli Stati Uniti il Comandante in Capo è il Presidente: deciderà, ed entro sei mesi riferirà al Congresso.

Concordiamo quindi con James Risch, il senior repubblicano alla Commissione Esteri del Senato, quando afferma che “…sole purpose altro non è che no first use con un altro nome”. Ed anche con Richard Fontaine, presidente del “Centro per una nuova sicurezza americana”, quando si dice convinto che, con la crescita dell’arroganza russa, nordcoreana e cinese, “…questo non è il momento di impegnarsi con un no first use”.



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