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Biden, Francesco e quell’incontro nel segno di Kennedy

Questo venerdì l’incontro tra papa Francesco e Joe Biden. Un faccia a faccia che arriva in un momento difficile per la Chiesa cattolica di fronte a cui il presidente Usa cerca un riscatto. Ma l’ostruzione della gerarchia (e non solo) rischia di vanificare la mediazione del pontefice. Tornano attuali le idee del gesuita Murray, di cui Morcelliana ha ripubblicato il libro-chiave, presentato al Centro Studi Americani

La posta in gioco è alta, le aspettative anche. Questo venerdì, in Vaticano, si incontreranno i due cattolici più famosi al mondo. Papa Francesco riceverà in udienza Joe Biden insieme alla First Lady Jill. Un incontro che arriva in una fase delicata, per entrambi.

Il presidente americano, a Roma per partecipare al G20 guidato dall’Italia di Mario Draghi, non naviga in acque tranquille. Atterra nella capitale affannato dalle riforme per la ripresa che continuano a trovare al Congresso il freno dei repubblicani, nonché di una schiera del suo stesso partito.

L’incontro con Francesco ha una tripla valenza. Personale: Biden è un cattolico praticante, il secondo presidente della storia dopo John Kennedy. Diplomatica: le tensioni emerse anche con irruenza fra Stati Uniti e Santa Sede durante la presidenza Trump, dal criticato accordo sui vescovi con la Cina di Xi Jinping alle frizioni sulla libertà religiosa, sono ancora tutte lì. Politica: Biden ha bisogno di riconquistare la fiducia di un elettorato cattolico che, da quando ha messo piede nello Studio Ovale, si è allontanato sempre più.

All’intersezione fra queste tre dimensioni si colloca la visita da un papa che nei suoi otto anni di pontificato ha riorientato non di poco la bussola internazionale della Santa Sede. Viene quasi naturale il paragone con Kennedy, che sessant’anni fa lanciava la prima corsa alla Casa Bianca di un candidato cattolico dopo l’esperienza infelilce di Al Smith. Eppure il contesto è cambiato, se non invertito. Allora Kennedy doveva dimostrare all’opinione pubblica americana, impregnata della cultura protestante, che un presidente cattolico sarebbe stato in grado di onorare la Costituzione americana.

Oggi avviene il contrario: Biden deve giustificarsi di fronte all’opinione pubblica cattolica, che per buona parte non lo ritiene rappresentativo della sua fede. Complice un’ostruzione aperta, senza veli della gerarchia ecclesiastica statunitense, con una Conferenza episcopale che fra solo due settimane, a Baltimora, sarà chiamata a votare una carta preparata dalla commissione dottrinale sul rapporto tra eucarestia e vita pubblica (dunque: politica) dei fedeli.

Non è un semplice simposio: in ballo c’è la possibilità per un presidente degli Stati Uniti che ha avallato e continua ad avallare politiche pro-aborto (pur essendo personalmente contrario) di accedere ai sacramenti. Un’eventualità senza precedenti, che forse neanche i continui interventi pacificatori di Francesco e della curia – su tutti la lettera di maggio scorso inviata ai vescovi americani dal cardinale Francisco Ladaria, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – basteranno a scongiurare.

Fede e politica, sacro e profano sono un intreccio difficile da sciogliere nel costituzionalismo americano, in un Paese dove la Costituzione affida a Dio il popolo. Su questi temi tornano attuali oggi più che mai le riflessioni di un teologo gesuita, John Courtney Murray, che ha lasciato un segno indelebile sui lavori del Concilio Vaticano II, fin dalla nuova dottrina sulla libertà religiosa approvata dal Vaticano nel 1965, e ricorre di continuo nel pontificato di Francesco, a partire dall’enciclica Fratelli Tutti.

Non è casuale allora il tempismo con cui la casa editrice Morcelliana, sotto la guida di Francesca Bazoli, ha riportato in vita e ripubblicato il capolavoro di Murray, “Noi crediamo in queste verità”, uscito nel 1960 in America, dove ha ispirato un celebre discorso di Kennedy a Houston, e nel 1965 in Italia. Un anno chiave, ha spiegato mercoledì durante una presentazione del volume al Centro Studi Americani Roberto Regoli, direttore del Dipartimento di Storia dell’Università Gregoriana. Il ’65 è infatti “l’anno in cui si chiude il Concilio Vaticano II, in cui viene pubblicata e votata la dichiarazione Dignitatis Humanae, uno dei documenti più significativi per i cambiamenti concettuali che apporta”.

Le tesi di Murray allora aprirono “un dibattito lacerante”. Partendo da una celebre frase della Dichiarazione di indipendenza, “noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità”, il gesuita “proponeva di assumere pienamente la libertà religiosa come principio da valorizzare e non come male da tollerare”, spiega Stefano Ceccanti, costituzionalista e deputato del Pd, che ha curato la prefazione alla nuova edizione di Morcelliana. Oggi, riprende, in un mondo in cui fenomeni di settarismo e over partisanship si diffondono ovunque, non solo in politica, l’America ha più che mai bisogno di rileggere Murray”, di “riscoprire la natura pluralistica della società americana già descritta a suo tempo da Tocqueville”.

Un pluralismo che, “a differenza di quanto abbiamo visto negli ultimi anni in Europa, negli Stati Uniti è rimasta l’unica, autentica interpretazione del concetto di libertà – dice Maria Antonietta Calabrò, moderatrice di un dibattito che ha visto protagonisti anche il fondatore di Rinnovamento nello Spirito Salvatore Martinez e il costituzionalista Francesco Clementi – la stessa che campeggia in quel motto presidenziale, “E Pluribus unum”, stampato sul sagrato di Capitol Hill”.


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