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Bonus Malus. Come riformare (davvero) il reddito di cittadinanza

Dal reddito di cittadinanza al salario minimo, dalle politiche attive al gol. Sarà un autunno caldo per il governissimo Draghi e la polvere delle riforme economiche non potrà restare a lungo sotto il tappeto. Una road map. L’analisi di Luigi Tivelli

Quante volte i giornali hanno titolato nelle scorse settimane che si sarebbe aperta una settimana decisiva per le dinamiche del lavoro in Italia? Da quanto si aspetta l’avvio di una vera politica attiva del lavoro, fondamentale per rispondere al mismatch fra domanda e offerta di lavoro?

Ogni settimana emerge all’attenzione un termine nuovo: politiche attive, gol, quarantene, ape sociale, salario minimo, opzione donna, reddito di cittadinanza, navigator, centri per l’impiego.

Nei giorni scorsi è emerso uno scontro nel governo, ovviamente tra i Cinque Stelle, in qualche modo appoggiati dal Pd, sull’ulteriore finanziamento del reddito di cittadinanza. Esistono, grazie anche all’operare del reddito di cittadinanza, tante posizioni di lavoro non ricoperte soprattutto per le imprese private: mancano i tornitori, altre figure di operai specializzati (anche perché gli istituti tecnici sono solo una sparuta realtà in questo strano Paese), mancano ingegneri, nelle categorie più “generiche”, le imprese del turismo non trovano varie tipologie di addetti a cominciare dai camerieri eccetera.

Questo avviene grazie anche al reddito di cittadinanza che ha disincentivato al lavoro centinaia di migliaia di giovani che interpretano tale reddito come “divano di cittadinanza” come lo ha definito Stefano Boeri. D’altronde, i nostri centri per l’impiego non intermediano più del 4% della forza lavoro e figuriamoci quello che sono stati in grado di fare per il reddito di cittadinanza.

Gli ultimi dati evidenziano che il reddito di cittadinanza è diventato il simbolo della bonus economy, favorita dai governi Conte. Certo, quattrocentomila beneficiari del reddito risultano essere in carico dai centri per l’impiego, ma tanto gli avviamenti al lavoro si contano in poche migliaia, visto anche che più del 60% degli attivabili al lavoro ancora non ha scritto il “patto per il lavoro”, prima tappa per cercare un’occupazione. Ma ora la parola magica, come avviene spesso in Italia, si chiama gol. , garanzia di occupabilità dei lavoratori, per la quale sono stanziati ben 4,4 miliardi del Pnrr fino al 2025, ma il nodo sta nel fatto che a provvedere a questa occupabilità dei lavoratori sono le regioni e i centri per l’impiego, cioè due delle istituzioni più inefficienti del panorama italiano.

Con l’aggravante che qualche regione del centro-nord può mobilitare qualcosa, essendo leggermente più efficiente, mentre quelle del Sud dove si addensa il vero nodo della disoccupazione giovanile sono notoriamente ben poco efficienti. Fra l’altro, delle risorse destinate ai centri pubblici per l’impiego, mentre nel 2020, ad esempio, 171, 2 miliardi erano destinati al Nord solo 63,9 erano destinati al Sud. Certo, ci sarà un potenziamento da circa 8000 dipendenti fino a circa 20000 dei centri pubblici, ma se manca una seria funzionalità, un serio metodo di lavoro in questi centri non è che l’aumento dell’occupazione potrà dare frutti più di tanto.

Del resto, c’è stato a fine settembre uno spietato rapporto della Corte dei Conti che ha evidenziato che i centri per l’impiego sono un vero e proprio flop e che in essi manca “l’organizzazione”. Analoghe forti criticità, il rapporto della Corte dei Conti ha individuato nell’Anpal, l’Agenzia per le politiche attive del lavoro, quella cui facevano capo i famosi navigator inventanti dall’amico di Luigi Di Maio, quell’americano prof. Parisi che è riuscito un po’ a sfasciare l’Anpal un po’ a trasformare il reddito di cittadinanza in una misura di sostegno alla povertà e non certo in una misura di avviamento al lavoro.

Il difetto stava già all’origine, perché nella stessa misura non può essere ricompreso per un verso il sostegno alla povertà, per altro verso il sostegno al lavoro: ciò che fra l’altro ha favorito l’azione delle migliaia di furbetti che hanno approfittato senza averne titolo del reddito di cittadinanza. Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha espresso nelle scorse settimane posizioni molto critiche sulla politica attiva del lavoro, invitando il ministro del lavoro Orlando finalmente ad assumere posizioni più concrete e precise. Lo stesso ministro, che sembra aver aperto in qualche modo ad una forma di tendenziale parificazione delle agenzie per il lavoro, che ben più conoscono i singoli mercati del lavoro di riferimento e la tematica dell’avvio al lavoro soprattutto dei giovani e delle donne, ai centri pubblici per l’impiego.

Vedremo come evolverà la situazione, ma uno dei nodi critici sta nel fatto che quella del lavoro sia competenza concorrente tra Stato e Regioni alla luce della riforma del Titolo V della Costituzione che tanti cocci appuntiti ha lasciato sul tappeto. Servirebbe invece una guida nazionale della politica del lavoro e delle politiche attive, senza assurde e continuative contrattazioni fra Stato e Regioni, che già tanti danni hanno creato sin qui. Recentemente, il Commissario straordinario dell’Anpal Raffaele Tangorra ha provato ad esprimere posizioni un po’ più innovative ma sembra che distribuire miliardi alle regioni prima che queste dimostrino di essere in grado di spenderli in maniera efficace non sia il metodo più funzionale ed efficace.

Non si capisce poi se l’Anpal servizi, che dovrebbe svolgere un ruolo cruciale sia alle strette dipendente di Anpal (le cui funzioni sono state riportare sotto il Ministero del lavoro) o sia una società di proprietà del Ministero dell’economia. In tutto questo, si è inserita il solito italico tormentone sul salario minimo garantito. Non basta l’assistenzialismo a iosa che si è prodotto con il reddito di cittadinanza, adesso qualcuno vorrebbe il salario statale minimo garantito, eliminando quello spazio naturale che sta nella contrattazione tra imprese e sindacati.

È uno di quei tormentoni che ogni tanto ritornano perché la cultura assistenzialistica rimane troppo diffusa in questo paese e sarebbe il caso di mettere una riga verso questa questione del salario minimo garantito, lasciando il dovuto e fondato spazio alla contrattazione fra associazioni delle imprese e rappresentanti dei lavoratori. In questo quadro, chi sta a guardare, magari dal divano di casa, in cui sono costretti, sono soprattutto i giovani lavoratori e le donne, i più penalizzati dall’assenza di un serio modello del mercato del lavoro.

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