Ammettere la sconfitta senza se e senza ma. E inviare dritto Draghi al Quirinale, per avere una protezione sul colle più alto. Consigli non richiesti a Salvini e Meloni dopo la batosta (record) alle amministrative. Il corsivo di Roberto Arditti
La mazzata elettorale incassata da Salvini e Meloni non ha sostanzialmente precedenti nella storia delle elezioni comunali dal ‘48 a oggi, poiché quasi mai prima d’ora la sinistra ha avuto contemporaneamente i sindaci di Torino, Milano, Bologna, Roma e Napoli.
Ciò è valido anche se prendiamo in considerazione il solo periodo con elezioni diretta (iniziato nel 1993) del primo cittadino, poiché fino al 2011 Milano ha sempre un sindaco di destra (prima Albertini e poi Moratti) e quando Palazzo Marino passa a Pisapia (cioè nel 2011) in Campidoglio c’è Gianni Alemanno per ancora due anni.
Solo tra il 2013 e il 2016 la situazione è analoga a quella attuale, perché poi le vittorie di Raggi e Appendino cancellano il 5-0 momentaneamente venutosi a creare. E comunque mai prima di questo lunedì 18 ottobre 2021 quel 5-0 ha preso forma nello stesso giorno, a riprova della forza dirompente di tale risultato.
Proviamo allora a spiegare questa débâcle senza farla troppo complicata, anche perché la motivazione è essenzialmente una: decine e decine di migliaia di elettori di destra hanno preferito starsene a casa anziché andare a votare.
Ma cosa li ha indotti a questo comportamento, capace di mollare una sberla epocale ai due più tonici protagonisti della vita politica italiana, peraltro bravi nel moltiplicare i consensi dei loro partiti in tutte le più recenti consultazioni nazionali? A mio avviso essenzialmente tre scelte da loro compiute, una più scellerata dell’altra.
La prima è quella di essersi divisi sull’atteggiamento da tenere verso il governo Draghi, producendo così una condizione di litigio perenne a destra del tutto incompatibile con la campagna elettorale da svolgere insieme, soprattutto in un momento di grande ripartenza nazionale dopo la pandemia (ben altra Italia era quella del 2018/2019, con la destra trionfante alle regionali trainata dal Salvini ministro dell’Interno).
La seconda è l’aver continuamente occhieggiato al popolo No-Vax sposando appieno la battaglia contro il Green Pass, mettendosi così in antagonismo con gran parte della piccola e media borghesia che ha scelto da subito il vaccino come via di fuga dalla tragedia del Covid-19 ed ha accettato di buon grado le limitazioni imposte dall’uso quotidiano del lasciapassare elettronico.
Infine ha influito pure la scelta dei candidati, (ad eccezione di Damilano a Torino, il migliore tra quelli messi in campo). Su questo mi permetto una testimonianza personale: da tre mesi a questa parte (parlo di Milano e Roma) ho incontrato più dirigenti dei partiti di destra desiderosi di perdere che di vincere. In soldoni: a Bernardo e Michetti non credeva minimamente almeno metà della stato maggiore della Lega e di Fratelli d’Italia (per non parlare di Forza Italia).
La destra italiana (che non governa da dieci anni tondi tondi, cioè dalla fine del governo Berlusconi per mano della scissione nel PDL voluta da Gianfranco Fini) esce dunque con le ossa rotte da questa tornata elettorale. Sarebbe però sbagliato trarne conseguenze trionfali a sinistra: molti di quelli che non si sono recati alle urne sono elettori di destra fatti e finiti.
Cosa debbono fare a questo punto dunque Meloni e Salvini? Ammettere la sconfitta senza se e senza ma, così fa chi perde sul campo ed ha senso dell’onore.
Poi attrezzarsi per diventare finalmente classe dirigente, magari accettando qualche consiglio in più.
Ed infine profittando della propria condizione di maggioranza relativa in Parlamento per mandare Draghi al Quirinale senza interrompere la legislatura e preparandosi a governare (da soli o in coabitazione dipenderà dai risultati elettorali del 2023) sotto la sua ala protettiva. Conviene (innanzitutto) a loro.