I partiti di centro destra devono aver fatto una riflessione che non gli ha portato fortuna. Il centro sinistra e in particolare il Pd corrono un rischio differente: quello di ritenersi i protagonisti della sconfitta del centro destra quando al massimo hanno preso parte al suo suicidio assistito. L’analisi di Giuliano Cazzola
Il leader e i galoppini dei partiti di centro destra ostentano, in queste elezioni amministrative, una caratteristica che a loro dire li contraddistingue dalle formazioni di centro sinistra (senza trattino in mezzo): mentre gli avversari (in particolare Pd e M5S) corrono quasi sempre ognuno per suo conto (ad eccezione di Bologna e Napoli per quanto riguarda le città più importanti), FI, Lega e FdI esprimono un solo candidato a sindaco.
Il fatto che il massimo comun divisore dei partiti di centro destra si è risolto in candidati apparentemente destinati alla sconfitta già al primo turno o al ballottaggio, tranne che in un caso: le elezioni regionali in Calabria dove è stato candidato Roberto Occhiuto un dirigente di Forza Italia, ora capogruppo alla Camera. Hanno sorpreso le candidature del centro destra soprattutto nelle due ‘’capitali’’ dell’Italia: quella politico-amministrativa (Roma) e quella degli affari e del lavoro (Milano).
I partiti di centro destra devono aver fatto una riflessione che non gli ha portato fortuna. Pare che, incontrando serie difficoltà a reperire candidati competitivi, si siano detti: ‘’seguiamo anche noi il metodo Conte. Scegliamo due sconosciuti e stiamo a vedere. In fondo se Conte è diventato presidente del Consiglio, può capitare che i nostri riescano a diventare sindaci’’.
Non si sono accorti che ad Enrico Michetti e a Luca Bernardo (reperiti attraverso il passa parola tra famigliari e amici) mancava un elemento che ha influito molto nella carriera di Giuseppi: nessuno dei due esibisce la pochette nel taschino della giacca. Nella capitale del Sud, il centro destra ha compiuto una scelta “contro natura”: la candidatura di un magistrato (Catello Maresca), dopo che i napoletani hanno eletto e sperimentato, eufemisticamente con scarso successo, per un decennio una altra toga d’antan che adesso – a mo’ di eroe dei due mondi – si è candidato in Calabria.
A Bologna i partiti di centro destra sono stati costretti a salire, per ignavia, sulla barchetta di in piccolo imprenditore, Fabio Battistini, che si sarebbe accontentato di veleggiare con la sua lista civica a fianco di qualche naviglio più potente e meglio armato. Dicono che a Torino il candidato del centro destra sia un po’ competitivo. Eppure non ci sarebbe stato bisogno, in alcune di queste città, di mettersi a cercare, come Diogene, un candidato della c.d. società civile.
Almeno per due buoni motivi: di candidati con questa provenienza e a capo di liste civiche gli elettori hanno fatto il pieno; ci sarebbero stati (in generale il centro sinistra, dal canto suo, lo ha capito) ottimi candidati ‘’politici’’. A Bologna per esempio era disponibile Andrea Cangini, senatore di Forza Italia e già direttore de Il Resto del Carlino.
A Milano, Maurizio Lupi (già vice presidente della Camera, ministro e capogruppo) avrebbe fatto miglior figura di Bernardo. Su Roma, Giorgia Meloni avrebbe potuto investire di meglio. Il caso Michetti, infatti, propone un interrogativo inquietante: è più grave che lo abbiano candidato a sindaco della Città Eterna, in linea di continuità con Cesare Augusto, o che gli elettori romani lo mandino quanto meno al ballottaggio? Anche a Napoli il centro destra avrebbe avuto delle carte migliori da giocare, magari rimettendo in pista Stefano Caldoro che non avrebbe avuto minori chance dell’ex Gabriele Albertini, a lungo corteggiato inutilmente a Milano.
Si direbbe che Giorgia Meloni e Matteo Salvini – nello spartirsi i candidati – abbiano cercato, attraverso veti reciproci, di impedire che l’alleato potesse fare eleggere il proprio sindaco, aggiungendo così un trofeo in più nella competizione fratricida (mentre il Cav si fregerà dell’unica vittoria della coalizione in Calabria dove il fronte avversario si presenta a pezzi). Nella consultazione di oggi e domani sono interessati 12 milioni di italiani chiamati ad eleggere i sindaci e i consigli comunali di poco meno di 1.200 comuni.
Avranno importanza anche i dati d’insieme: ma gli esiti di Torino, Milano, Bologna, Roma e Napoli (in alcuni casi si dovrà aspettare il secondo turno, anche se il candidato di centro sinistra sarà comunque il favorito) domineranno la scena. Il centro destra sarà ancora propenso a votare anticipatamente per l’elezione di un parlamento martoriato ed amputato, dopo aver registrato sonore sconfitte nelle più importanti città? Soprattutto in un contesto in cui l’intesa Meloni-Salvini scricchiola, e unifica, più che le forze, le debolezze di FdI e della Lega.
Come una coppia temporaneamente separata, ma legata da un consorzio necessario nella gestione di debito comune (gli “ismi” nefasti di cui ciascuno è portatore). Il centro sinistra e in particolare il Pd corrono un rischio differente: quello di ritenersi i protagonisti della sconfitta del centro destra quando al massimo hanno preso parte al suo suicidio assistito. Soprattutto sarà opportuno seguire i flussi elettorali prima di attribuire la conquista delle grandi città, al buon esito dell’alleanza in fieri con il M5S e le ulteriori formazioni di sinistra, nel contesto di un bipolarismo forgiato da una legge elettorale maggioritaria.
Infine, il centro sinistra è un concentramento di “quinte colonne” al proprio interno. A Bologna, la lista “anche tu Conti” (promossa dalla sindaca di fede renziana di S.Lazzaro di Savena in competizione, nelle primarie, con il predestinato del Pd, Matteo Lepore), punta a divenire determinante per formare la maggioranza a Palazzo d’Accursio, e poter condizionare, quindi, le politiche del sindaco. Poi, negli ultimi giorni in via del Nazareno è serpeggiata la Grande Paura di un ballottaggio a Roma tra Roberto Gualtieri e Carlo Calenda.
Così Calenda è diventato il nemico pubblico n. 1, quasi come Matteo Renzi ai tempi della crisi del Conte 2 e del rifiuto di Iv ad imbarcarsi sulla terza edizione del governo di “Giuseppi”. L’accusa che viene rivolta al “giovin signore” è quella di tramare con la destra, a causa dell’endorsment (gradito) di Giancarlo Giorgetti. Ciò vuol dire che Enrico Letta, quando promette che il Pd non andrà mai più al governo con la Lega, non ha capito i processi in atto nel Carroccio, come se il Pd smarrisse ogni ruolo nel caso che una componente di destra si muova verso il centro. Giorgetti non è più il vice del Capitano, ma il più apprezzato collaboratore di Mario Draghi, al quale il premier affiderebbe il proseguimento della sua politica se fosse chiamato al Quirinale.