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Tutti gli errori del centrodestra (e una soluzione). Il mosaico di Fusi

Per provare a risollevarsi, forse occorre che il centrodestra cambi schema senza mutare posizione. Un equilibrismo forse impossibile ma all’orizzonte non si intravede altro. Il mosaico di Carlo Fusi

Sia di lotta che di governo: entrambe le versioni del centrodestra hanno perso le elezioni amministrative. Può sembrare perfino banale ma per ritrovare un percorso comune Lega, Fdi e Forza Italia non possono che partire dalla constatazione che divisi si perde. Assai più complicato è cementare una unità che allo stato ha la consistenza di un miraggio. Ha perso il centrodestra di lotta incarnato da Giorgia Meloni perché  buona parte di quelle lotte hanno spaesato il tradizionale serbatoio elettorale, prima fra tutte quella a fianco dei No Vax. L’elettorato di centrodestra, infatti, tradizionalmente preferisce l’ordine al girotondo protestatario, la sicurezza vaccinale piuttosto che i vagheggiamenti complottasti contro Big Pharma. C’è ovviamente una fetta di consenso che è perennemente con la bava alla bocca ma è minoritaria: dopo lo sterminio economico e sociale del Covid la preferenza va alla ripartenza. Solo che la Meloni questo tipo di lungimiranza non è riuscita a presentarla.

Come e ugualmente ha perso il centrodestra di governo, in particolare quello con le sembianze di Matteo Salvini. Accettando di far parte della larga ed eterogenea maggioranza a sostegno di Mario Draghi, infatti, il Capitano ha fatto una mossa di notevole spessore politico, volta in particolare ad avere un posto di prima fila nella gestione dei fondi Ue. Tuttavia giorno dopo giorno ha mostrato di saper interpretare poco e male la parte di chi rassicura i suoi aficionados e presidia il territorio elettorale. I continui sbandamenti dettati dalla competition con FdI hanno spaesato gli elettori e anche qui hanno giocato un ruolo negativo gli ammiccamenti a chi non vuole vaccinarsi. In definitiva la coalizione di centrodestra non ha offerto una credibile immagine di forza capace di gestire il Paese una volta che avesse avuto dalle urne politiche i voti necessari per governare. Molta protesta e proposte magari anche accettabili ma lanciate come guanti di sfida poi non arrivate al traguardo hanno determinato una sensazione di scarsa capacità di incisione e di velleitarismo diffuso ancorché inconcludente.

E adesso che si fa? L’idea del vertice a tre è nella logica, ma se le posizioni di partenza restano quelle attuali più che una sintesi di coordinamento l’incontro minaccia di essere una Babele di risentimenti. Il punto vero è che qualunque riorganizzazione verrà individuata non sarà gratuita, comporterà prezzi alti da pagare e nessuno intende farlo. Meloni non può abdicare al suo ruolo di Grande Oppositrice e dunque non può lasciare la trincea dove si è sistemata. Al tempo stesso se Salvini dovesse abbandonare la maggioranza di larghe intese (ma ha subito puntualizzato che non sarà così) provocherebbe uno sconquasso nel Carroccio e rinnegherebbe scelte decisive consegnandosi mani e piedi a Giorgia, anche lei però sconfitta dalle urne. Quanto a Berlusconi, è l’unico che può esercitare una moral suasion ma il tempo passa per tutti e l’aspirazione al Colle invece di amalgamare può produrre nuove lacerazioni.

In definitiva chiunque cambiasse posizioni perderebbe la faccia senza avere la garanzia di riconquistare elettori: uno scambio leonino che nessuno dei tre intende avallare. Bene, e allora e di nuovo: che si fa? Per provare a risollevarsi, forse occorre che il centrodestra cambi schema senza mutare posizione. Un equilibrismo forse impossibile ma all’orizzonte non si intravede altro. È necessario che i tre partiti offrano un’immagine unitaria a patire dalla condivisione di una comune strategia per l’Italia del dopo pandemia, stendendo un piano comune che risulti attrattivo per i cittadini che rifuggono dalla sinistra. E c’è bisogno di una leadership forse meno enfatica ma più capace di sintesi. La vera prova di forza sarebbe se questo contenitore politico fosse capace di presentarsi ai nastri di partenza della corrida per il Quirinale con un candidato unico e di grande spessore. Per stabilizzare il Paese, non per giochetti elettorali che peraltro potrebbero anche riservare amare sorprese. Un punto di riferimento istituzionale che rassicuri l’Europa e i mercati, nel quale gli italiani possano riconoscersi. Il nome c’è e sta a Palazzo Chigi. Far diventare SuperMario l’icona della ritrovata compattezza non per il governo ma per la presidenza della Repubblica senza porre condizioni di sorta segnerebbe un innegabile salto di qualità e la migliore immagine di lungimiranza unitaria.

Non è facile perché, come detto, si devono pagare prezzi politici e personali ingenti. Ma nel caso opposto, andare cioè in ordine sparso all’appuntamento per eleggere il successore di Mattarella, rischiererebbe di diventare il più bel regalo agli avversari.



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