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Chi vince e chi perde con la manovra di Draghi. L’analisi di Zecchini

I grossi scogli su cui il Paese rischia di scontrarsi a seguito dell’imponente manovra di circa 30 miliardi sono ancora tutti da superare e anzi se ne profila uno aggiuntivo: soldi a tutti, ma poche riforme efficaci. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse

L’impressione che si trae dalla proposta di legge di bilancio che il governo ha appena varato è che tutti gli stakeholders rappresentati nel faticoso iter di definizione abbiano ricevuto fondi, grandi o piccoli che siano. Ma i grossi scogli su cui il Paese rischia di scontrarsi a seguito dell’imponente manovra di circa 30 miliardi sono ancora tutti da superare e anzi se ne profila uno aggiuntivo. Soldi a tutti, ma poche riforme efficaci, poco progresso verso un debito pubblico sostenibile e nuovo rischio di un prolungato rialzo di prezzi e salari, in misura mai vista dall’avvio dell’euro.

Che tutti gli strumenti d’intervento messi in campo dai ministeri per il dopo-crisi pandemica abbiano ricevuto nuovi finanziamenti, anche se sotto forma di estensione delle loro scadenze, è di tutta evidenza, considerando il lungo elenco di stanziamenti che toccano tutti i capitoli a cuore delle forze politiche al governo.

Gli investimenti pubblici per infrastrutture, soprattutto fisiche, hanno ricevuto altri 89 miliardi su un nuovo fondo di durata per 15 anni, che aggiungendosi ai precedenti stanziamenti portano il totale a 540 miliardi su un arco pluriennale, decisione sicuramente da condividere.
In ordine di grandezza seguono gli stanziamenti per il welfare sociale, a cui sono destinate diverse misure. Per le pensioni si continua a rinviare l’applicazione integrale del sistema contributivo, che avrebbe dovuto contribuire a mettere al sicuro i conti pubblici secondo il giudizio di ogni esperto.

Rinviare per consentire a drappelli di lavoratori di andare in pensione anzitempo a spese del bilancio pubblico e della crescita. A loro si aggiungono quelli dell’Ape sociale, dell’Opzione Donna e, ad ampliare la platea, anche coloro impegnati in lavori considerati “gravosi”, scelti tutti con criteri opinabili e in principio ingiustificati, se non per esigenze di clientela elettorale. Che si potrebbe dire per i molti lavori particolarmente rischiosi, che meriterebbero anch’essi una considerazione? Ampliando così, si potrebbe arrivare a comprendere una notevole quota di lavoratori, ponendo sui restanti un onere eccessivo ed ingiustificato.

Su questa fuoriuscita anticipata emerge chiaramente una delle plateali contraddizioni nelle politiche governative. Da un lato si lanciano grandi programmi d’investimento e di rilancio delle attività produttive. Dall’altro lato si facilita l’uscita dal mercato del lavoro di forze che potrebbero ancora contribuire, ad appropriate condizioni e con opportuna formazione, a soddisfare la domanda di lavoro delle imprese. Sortita anticipata anche per i dipendenti da Pmi in crisi.

E si prosegue in quest’opera incuranti di uno sfondo inquietante contrassegnato dal declino demografico prolungato nel medio e lungo periodo, dal recente abbassamento del tasso di occupazione e dalle crescenti difficoltà che gli imprenditori incontrano nel reperire le forze di lavoro necessarie per i loro investimenti; non solo per competenze nell’economia 4.0 ma per qualifiche medie e basse.

L’Ance, ad esempio, denuncia la mancanza di più di 265 mila lavoratori tra operai, impiegati, tecnici specializzati e figure professionali per realizzare i progetti del Pnrr. Il tasso di occupazione, che aveva raggiunto a metà del 2019 il picco del 59,3% si è stabilizzato a giugno e luglio scorsi al 58,4%. Le tendenze demografiche in atto mostrano una dilatazione della quota di popolazione anziana e il restringersi di quella dei giovani sotto i 25 anni. Tra costoro, nonostante i miglioramenti degli ultimi mesi, il tasso d’inattività rimane al 75% e quello di disoccupazione su livelli del 27,7%, che è il più alto tra i gruppi di età. In lento miglioramento, invece, i due tassi per la fascia successiva tra i 25 e i 34 anni.

Neanche i modesti aggiustamenti apportati al Reddito di cittadinanza possono avere un significativo effetto di incentivo al lavoro, perché si applicano a una minoranza di percettori dell’aiuto, ovvero quelli occupabili, mentre la maggioranza è o inoccupabile, o esentata. Si mantiene, pertanto, il carattere spurio della misura, in quanto persegue due obiettivi che solo in parte sono collegabili. Se fosse un incentivo al lavoro, dovrebbe raccordarsi, come non fa, con le politiche attive del lavoro e con le altre forme di sostegno all’entrata o al rientro nel mercato del lavoro per coloro che hanno perso l’occupazione, evitando duplicazioni e ricercando sinergie.

Se al contrario fosse una mera misura di aiuto, andrebbe ridefinita nelle condizioni di eleggibilità, nelle modalità ed inserita coerentemente nel contesto dei vari strumenti esistenti di sostegno agli indigenti. Volendo raggiungere entrambi gli scopi, lo stesso strumento si è dimostrato inefficiente e dispendioso. Lo squilibrio verso cui si tende, con forze di lavoro assecondate nell’abbandonare l’attività ed impulsi alla domanda di lavoro delle imprese, non può che risolversi in richieste di retribuzioni crescenti (ed anche di immigrati), in un contesto già presente di forti tensioni sui costi di energia e materie prime. Il conseguente rischio di prolungati rincari probabilmente innescherebbe una risposta in senso restrittivo della Bce, con effetti indesiderati sul costo del denaro.

Dal lato della spesa si prosegue con nuovi interventi nel senso di sostenere la domanda per finalità sociali, prevedendo in contropartita ben pochi tagli. Si chiude il cashback, si riduce il bonus facciate e finiscono quelli per infissi e mobili, si restringono le garanzie sui prestiti alle imprese per la liquidità e si limitano gli incentivi per le fusioni bancarie. In senso opposto vanno le spese correnti per l’estensione degli ammortizzatori sociali alle piccole imprese con meno di 15 dipendenti, i pensionamenti anticipati, il reimpiego dei lavoratori delle imprese in crisi, l’incentivazione del rientro al lavoro dopo la maternità, l’assistenza alle famiglie (asili nido, scuole per l’infanzia e caregiver), la maggiorazione delle indennità ai sindaci, i corsi di istruzione motoria nella scuola primaria, le spese per i dipendenti pubblici e per il nuovo bonus affitti dei giovani che lasciano l’abitazione dei genitori.

I nuovi finanziamenti per l’istruzione universitaria e le strutture scolastiche andrebbero valutati a parte, perché pur essendo classificati come spese correnti, di fatto si tratta di investimenti opportuni nel capitale umano, che rappresenta uno dei perni dell’azione per elevare il potenziale di crescita economica. Ridimensionamenti sono, invece, previsti nella spesa per investimenti, che dovrebbe fungere da motore importante per la crescita nel medio-lungo periodo, con l’eccezione di quella per la transizione ecologica, che potrà contare su altri 840 milioni annui.

Sono decurtati gli incentivi all’innovazione tecnologica 4.0 anche per i beni strumentali digitali, viene abbassato il credito d’imposta per investimenti in R&S e si chiude quello per il super-ammortamento degli altri beni strumentali. Si aggiungono, di contro, nuove risorse per la legge Sabatini e si stabilizza il fondo a sostegno dell’internazionalizzazione delle imprese (Fondo 394). Non è certo se queste scelte siano il primo atto della promessa revisione di tutte le spese fiscali. Tale operazione richiederebbe un’attenta valutazione dell’impatto di ciascuna misura sullo sviluppo economico e non semplicemente la verifica della consistenza delle richieste provenienti dagli operatori.

Alla frammentarietà dei diversi incrementi di spesa si accompagna una riduzione delle imposte selettiva e strutturale, di cui si conosce soltanto la dimensione complessiva (8 miliardi all’anno) ma non l’articolazione, né i beneficiari. Le opzioni in discussione sono sostanzialmente l’abbassamento di alcune aliquote dell’Irpef per restringere il cuneo fiscale, una parziale diminuzione dell’IRAP a carico delle imprese, e la revisione delle detrazioni fiscali per i redditi da lavoro dipendente. Ciascuna alternativa comporta effetti diversi per la competitività delle imprese, la loro domanda di lavoro e il potere d’acquisto di alcune categorie di lavoratori, con ripercussioni sull’offerta di lavoro. Una combinazione delle tre ipotesi ha lo svantaggio di rendere più modesta la consistenza dell’alleggerimento fiscale come stimolo alla competitività e alla crescita.

È probabile che anche sul fronte imposte si segua l’approccio impiegato dal lato della spesa, ovvero puntare su tanti interventi per accontentare i più piuttosto che concentrarsi su poche misure dal maggior impatto e nell’ambito di una riforma organica, che minimizzi i costi di gestione e mostri la sua validità nel tempo. Il capitolo delle altre riforme di struttura è quello più carente nella manovra. Quella del fisco è solo al primo atto, perché si vuole, invece, far leva prevalentemente sulla spinta alla spesa sociale e a quella per infrastrutture, fondandosi sull’assunto che il loro effetto moltiplicatore sul reddito sia relativamente maggiore. La riforma degli ammortizzatori sociali ha poca portata, essendo limitata alla prevista estensione delle coperture. Sarebbe, piuttosto, necessaria un’integrale revisione dell’assetto del sistema per accrescerne l’efficacia e limitarne i costi di gestione.

Quella della concorrenza di mercato è ancora in gestazione ed incontra parecchie resistenze su punti importanti, come i servizi pubblici locali. Quella della disciplina del lavoro nel senso della flexsecurity è tabù che non si tocca. Quella della pubblica amministrazione è la sola in corso con esiti ancora da scoprire. Sulla digitalizzazione, le carriere, la valutazione del personale e le assunzioni si registrano progressi importanti, che nondimeno denunciano i travagli della fase di attuazione. Si è visto già qualche aggiustamento ad hoc per velocizzare i concorsi, ma è positivo il cammino percorso, benché vada completato. La riforma della giustizia non è menzionata perché si ritiene già completata, sebbene sollevi molti dubbi sulla sua efficacia oltre che sulla sua attuabilità in tempi non troppo lunghi.

Il grande assente è il piano di rientro dal debito entro stabili limiti di sostenibilità in rapporto al PIL, rientro reso ancor più arduo dagli incrementi di spesa previsti, dai tagli strutturali di alcune imposte e dal deficit primario di bilancio. La manovra di bilancio attualmente è orientata a spingere la crescita reale oltre il rimbalzo congiunturale, un obiettivo condivisibile, ma nelle scelte di spesa si adombra un piano recondito, che rimane implicito.

Queste scelte spingono anche verso tensioni prolungate sui prezzi, come si avverte nel resto dell’area euro, in cui l’inflazione ad ottobre su base annuale ha raggiunto un picco del 4,1%, livello ben sopra le aspettative. Il rientro dal debito sarà tanto più agevole quanto più aumenteranno allo stesso tempo produzione reale ed indici dei prezzi. Benché la dinamica dei prezzi in Italia si sia finora mantenuta su una traiettoria di rialzi (2,6%) più contenuta della media dell’area euro, nel prossimo triennio si vedrà quale peso avranno l’erosione della moneta e la crescita reale nel ristabilire la sostenibilità del debito una volta tornati su normali condizioni di politica monetaria. Al momento è bene sospendere la valutazione e concentrarsi sulla capacità di questa politica di bilancio di portare l’economia su un sentiero di espansione più rapida.


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