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Il cinema spaziale tra strategie geopolitiche e turisti miliardari

La troupe russa per 12 giorni in orbita sulla Soyuz segnala non tanto un sorpasso “sovietico” nella gara spaziale, quanto la scelta occidentale di separare le attività dei miliardari Bezos, Musk e Branson dalle strategie degli Stati. Il commento di Igor Pellicciari, ordinario di Relazioni internazionali all’Università di Urbino

In Russia come in Occidente (pure su quei media in genere critici verso il Cremlino), la notizia della prima troupe cinematografica della Storia mandata nello spazio ha avuto un risalto positivo, come è giusto che sia per i primati, tanto più se aerospaziali.

Si è letto nei dettagli dell’attrice Yulia Peresild, dal regista Klim Šipenko e dal cosmonauta Oleg Novitski che hanno concluso, in 12 giorni di orbita sulla navicella Soyouz Ms-18, le riprese del primo film nello spazio, prima di fare ritorno sulla terra il 17 Ottobre.

A sembrare eccessiva, invece, è stata la facile raffigurazione giornalistica avanzata da più parti dell’episodio come di un’affermazione di Mosca su Washington nell’eterna corsa allo spazio.

Rievocando toni da antico bipolarismo, suggestivi ma fuori luogo, non tanto per l’impegno russo profuso, quanto per il fatto che una vera gara richiede la presenza di almeno due contendenti. Mentre qua sembra esserne rimasto solo uno, con gli Usa sfilatisi da tempo dalla competizione, almeno nella sua accezione geo-politica.

Se si escludono le missioni esplorative su Marte, la NASA da alcuni decenni ha dato segnali di ridurre il suo raggio d’azione, lasciando campo libero ai russi, paradossalmente proprio quando questi erano usciti sconfitti dalla Guerra Fredda, pure afflitti da una cronica crisi di mezzi e risorse.

Per Mosca, invece, i successi nel cosmo sono in tutti questi anni rimasti parte integrante di un radicato patriottismo tecnologico. Colonna portante di uno spirito identitario sopravvissuto al periodo sovietico, dalle cui simbologie già all’epoca si era staccato per brillare di una propria luce autonoma e sincera.

Basti vedere la tenuta del mito di Yuri Gagarin, amatissimo anche dalle nuove generazioni di un paese che celebra e ricorda i propri cosmonauti come l’Italia fa con i propri pittori rinascimentali.

Forte di questo mito positivista, non a caso Mosca ha deciso nel 2020 di battezzare il suo vaccino contro il Covid con un altro nome sacrale del suo immaginario aerospaziale, lo Sputnik, primo satellite artificiale ad essere lanciato in orbita attorno alla terra.

È un incrocio non casuale e non solo celebrativo, che sta anche a rivendicare la forte matrice statuale (sovietica prima, russa poi) del progresso tecnologico in quanto tale, a prescindere dal settore in cui esso si esprime.

Questo ha permesso a Mosca a seconda dei casi, di controllare le strategie d’uso delle proprie scoperte tecnologiche e delle proprie risorse naturali, spesso correlate.

C’è un filo conduttore che unisce la missione della troupe nello spazio, gli accordi di distribuzione “sottocosto” a paesi terzi del vaccino Sputnik V o le recenti rassicurazioni di Vladimir Putin (in persona) che l’Europa non resterà a secco di forniture energetiche nell’inverno alle porte.

È il fatto che in tutti e tre i casi, il Cremlino dimostra di sfruttare a pieno il carattere pubblico di aerospazio, energia, vaccino, decidendone l’utilizzo per rafforzare il consenso sul piano interno e l’influenza geo-politica su quello internazionale.

Nell’aerospazio, ravvivando presso l’opinione pubblica domestica i fasti dell’epopea sovietica e rimarcando a livello tecnologico una superiorità che rende Mosca a tutt’oggi partner appetibile per potenze con crescenti ambizioni cosmiche, come Pechino.

La peculiarità del perseguire una finalità (geo)politica, pone di nuovo la Russia in scontro con altri approcci americani ed europei dominati da finalità commerciali, talmente diversi da assumere i contorni di uno scontro quasi ideologico.

Come accaduto per la corsa al vaccino, quella per mandare in orbita l’uomo qualunque è stata in Occidente monopolizzata da grandissimi investitori privati che puntano a mettere un’ipoteca sul profittevole mercato futuro del turismo spaziale.

Dietro alla competizione per andare nello spazio tra Jeff Bezos, Elon Musk e Richard Branson vi è lo scontro tra colossi come Amazon, Tesla e Virgin – nessuno dei quali sembra interessato a farsi portatore di politiche estere per conto terzi, e solo in alcuni casi a sviluppare ricerca che non sia funzionale al proprio dichiarato business plan.

Dato per scontato che i russi non cambieranno loro modus operandi (tra le due, è più probabile che tornino a nazionalizzare che a privatizzare) è prevedibile che l’Occidente accuserà sempre più il colpo nell’efficacia della sua azione di governo, pagando un alto prezzo geo-politico.

Non tanto per incapacità tecnica, quanto per progressiva perdita di controllo su sempre più settori che tradizionalmente erano di competenza statuale e ora sono nelle mani di colossi privati con bilanci simili a quelli di molti Stati sovrani.

Emblematico è il caso della Ue, che in vista di una prevedibile ripresa che ne avrebbe innalzato la richiesta, non è stata capace di lanciare durante i lunghi mesi del lockdown politiche di stoccaggio energetico (quando per esempio il greggio era arrivato ai suoi minimi storici).

Lamentarsi oggi del gioco del gatto col topo che il Cremlino farà con l’Europa nel fornirle l’energia necessaria nei prossimi mesi è un confondere per causa quello che in realtà è l’effetto di una politica europea.

Sempre più ricca di disponibilità economiche ma più povera di capacità decisionale.


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