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Cosa esce dalle urne irachene? Disaffezione e Moqtada al Sadr

Dal voto in Iraq arriva l’immagine di un Paese in difficoltà, i cui cittadini non credono più alla politica, vessati anche dalle pressioni esterne. L’aumento di una ventina di seggi sadristi rispetto al voto del 2018 è un dato che solo in parte racconta il voto

Con lo spoglio ancora non definitivamente concluso, la componente politica di Moqtada al Sadr è quella che ha ottenuto il maggior numero di consensi dai pochi elettori iracheni che domenica 10 ottobre si sono recati alle urne. L’aumento di una ventina di seggi sadristi rispetto al voto del 2018 (dovrebbero essere 74 su 369 totali) è un dato che solo in parte racconta il voto in Iraq. L’elemento centrale è piuttosto l’affluenza, o meglio l’astensionismo: se a Baghdad è andato a votare il 30 per cento dei cittadini, nelle province meno centrali i partecipanti sono stati attorno al 20. Su venticinque milioni di aventi diritto, solo nove milioni si sono spostati verso i seggi.

Mai così pochi dopo la liberazione dalla dittatura di Saddam Hussein. Nemmeno quando lo Stato islamico minacciava (e compiva) stragi. Sia chiaro, l’IS — ideologicamente contrario ai processi elettorali e democratici — ha lanciato moniti anche stavolta gli “infedeli” che si sarebbero recati ai seggi, ma il rischio attentati è stato in questo caso di importanza relativa nel frenare i cittadini. Il disinteresse al voto è figlio di una disillusione generale riguardo al destino del paese; riguardo al futuro. Le otto componenti politiche che dominano l’Assemblea nazionale non sono amate. Sono viste come centri di propagazione della corruzione, come il cuore di quel meccanismo clientelare contro cui la classe giovane protesta chiedendo appunto un futuro.

“Tu credi che il voto di uno come me avrebbe potuto realmente cambiare qualcosa? Oppure sarebbe stato preso come un incoraggiamento per il perseverare dello status quo?”, ci spiega via Whatsapp Mustafa, un ragazzo iracheno che vive in Italia. Si chiama come il premier, Mustafa al Kadhimi, che sta guidando il Paese dal 7 maggio 2020 con un progetto: renderlo il fulcro di alcune delle dinamiche regionali che vorrebbero distendere con dialogo e soluzioni negoziali i principali attriti del Medio Oriente. A Baghdad, sotto il coordinamento del governo Kadhimi, si parlano per esempio Arabia Saudita Iran, sunniti e sciiti, poli di accentramento delle questioni politiche della regione.

Sulla disillusione degli iracheni pesa anche l’interferenza di attori esterni nelle vicende politiche interne. Su tutti c’è proprio la Repubblica islamica, che in Iraq come altrove ha costruito un sistema di partiti/milizia legati dall’ideologia sciita ma molto di più dal supporto che i Pasdaran inviano costantemente in Iraq. Le milizie sono potenti, hanno creato un sistema clientelare che ha prodotto un livello di corruzione endemica: sono uno stato nello stato, di cui la guerra contro il Califfato ha formalizzato l’esistenza. Si muovono sotto l’ombrello istituzionale delle Forze di mobilitazione popolare, Pmf, sfruttano gli spazi concessi all’interno del comparto sicurezza ma si allungano ovunque.

L’ideatore di queste componenti politiche-militari-sociali è Qassem Soleimani, il generale epico che guidava le operazioni estere dei Pasdaran. È morto, ucciso da un raid aereo americano a Baghdad a gennaio del 2020 mentre viaggiava in un convoglio con il capo delle Pmf (ucciso anche lui). Era lì perché — secondo il Pentagono — pianificava un attacco contro l’ambasciata statunitense sfruttando manifestazioni di protesta locali infiammate dalle milizie. Non sapremo mai se quell’attacco era reale o meno, ma i miliziani filo-iraniani in Iraq hanno tante volte colpito interessi americani. È come se i Pasdaran li usassero per mantenere sempre attivo il livello d’ingaggio nel confronto Washington-Teheran.

Se sei un giovane iracheno, o sei parte delle milizie oppure detesti le milizie, perché le loro attività sottraggono parte del futuro che chiedi alla politica e al governo — e devi essere ideologizzato per accettarlo. Il premier Kadhimi sta cercando di ridimensionare il ruolo delle milizie, ma sa che se vuole sopravvivere (letteralmente) dovrà accettare compromessi. Nell’ottobre del 2019 i giovani iracheni erano scesi in strada organizzando importanti proteste dove il senso era riassunto perfettamente in uno degli slogan: “Né con l’Iran né con gli Usa. Con l’Iraq”. Era una richiesta sincera di sovranità davanti ad anni di sussidiarietà. Perché le milizie dovevano reclutare persone per combattere la guerra d’influenza con cui l’Iran ha voluto salvare il rais siriano Bashar el Assad quando nel loro paese manca tutto, dal cibo all’energia elettrica? Certi corpo politico-sociali non potrebbero concentrare i loro sforzi sul loro Paese? Votereste un partito politico italiano che ha come obiettivo investire parte dei fondi sottratti allo stato con la corruzione nelle questioni che interessano la Svizzera?

Sulla risposta (abbastando ovvia) a queste domande si basa il successo di al Sadr. Un tempo il chierico sciita guidava una milizia atroce, l’Esercito del Mahdi, colpevole di atroci violenze settarie contro i sunniti durante la guerra civile e di attentati contro le forze americane di occupazione. Col tempo però la sua posizione è cambiata, e con essa i suoi legami con l’Iran. All’Esercito è stato dato il nuovo nome di Brigate della Pace, al Sadr ha viaggiato in Arabia Saudita per incontrare l’erede al trono e factotum del regno Mohammed bin Salman, si è costruito una posizione politica populista anti-corruzione in cui il suo messaggio di rottura era indirizzato alla classe operaia. Dal 2018 guida i seggi parlamentari per numero (dunque consensi), è il più importante leader nazionalista della Coalizone Sairoon, e i suoi sadristi sono una componente importante del governo. I risultati elettorali attuali si legano a questo percorso: da vent’anni al Sadr è parte del destino dell’Iraq e (a seconda di cosa serve per esserlo) e a soli 48 anni non perde occasione per restarne al centro.

L’arrivo a Baghdad di Esmail Qaani — il successore di Soleimani — durante lo spoglio è un’altra fotografia utile per spiegare il Paese. Ricorda l’arrivo di Soleimani durante le proteste del 2019, represse nel sangue dalle milizie coordinate dai Pasdaran. Il governo Kadhimi esce da quella fase storica, dopo le dimissioni di Adel Abdul Mahdi, capro espiatorio di una protesta di cui lui era obiettivo di facciata. Da lì sono state convocate le elezioni attuali (in forma anticipata). Su quel sostrato trovava già consenso al Sadr.

Il destino dell’Iraq in Medio Oriente è importante (sempre continuando per immagini) come quello della Francia per l’Europa. La disillusone, che comporta instabilità interna, arriva in evidente attrito con le iniziative di politica estera lanciate dal premier. Il valore di quel che accade è particolare per l’Italia, che tra qualche mese si troverà a guidare la missione Nato in Iraq che — quando gli Usa lasceranno il Paese con lo stesso orientamento strategico seguito in Afganistan — dovrà occuparsi di gestire gli equilibri tra chi vuole sovranità, chi ha interessi politici al mantenimento del trito status quo, e una realtà strisciante come lo Stato islamico che resta una minaccia (in occasione del voto, come detto, i baghdadisti hanno diffuso un video di propaganda annunciando attentati).

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