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Draghi, la manovra e il fattore Fed. La versione di Polillo

La manovra di Draghi forse non ha fatto i conti con la possibile stretta monetaria, prima della Fed e poi della Bce. E così si rischia di far apparire tutte le fragilità della ex finanziaria. L’analisi di Gianfranco Polillo

Martedì o mercoledì della prossima settimana è convocato il direttorio della Fed. Dovrà decidere se dare inizio alle operazioni di tapering oppure resistere ancora un po’ in attesa di vedere gli sviluppi di quell’inflazione, che tanto preoccupa almeno una parte dell’opinione pubblica americana. Dovesse prevalere la prudenza, nonostante le sollecitazioni contrarie di Joe Biden, inizierebbe una nuova fase, destinata ben presto a debordare dal territorio americano e riflettersi sull’intera situazione internazionale: Europa compresa.

Sarebbe l’inizio di una politica monetaria meno accomodante. Inizierà con una riduzione, seppure graduale, degli acquisti di titoli da parte della stessa Fed, per poi riflettersi sulla struttura dei tassi di interessi, nel tentativo di contrastare l’aumento dei prezzi, raffreddando progressivamente l’economia. L’esperienza passata – devastante quella degli inizi degli anni ’80 – insegna che le altre Banche centrali, difficilmente, potranno fare spallucce e continuare nelle politiche del quantitative easing: allargamento della base monetaria, tassi di interessi al minimo, acquisto di titoli da congelare nei propri bilanci. Si spera, pertanto, che se anche quelle decisioni risultassero inevitabili; la gradualità ne fosse il necessario corollario. Sarà quel che sarà, ma fin da ora sarà necessario tenerne conto nel valutare la situazione italiana.

L’ipotesi di una possibile stretta, seppure imposta dall’esterno per il tramite della Bce, rischia infatti di far apparire tutte le fragilità, che ne caratterizzano il quadro di medio periodo. Appena descritto dal Documento programmatico di Bilancio 2022. Ed intanto, dopo tanto tempo, le prime avvisaglie: con gli spread sui Cct che, in un solo giorno, crescono di 11 punti.

Le previsioni governative, appena fresche di stampa, avevano un fondamento diverso. Ipotizzavano che la spesa per interessi, nell’intero quadriennio 2021-2024, potesse diminuire non solo in rapporto al Pil, ma addirittura in valore assoluto. Sebbene il debito pubblico, grazie al connubio Conte – Gualtieri, nel 2020 avesse fatto registrare il più alto incremento (21,3 punti di Pil) della storia repubblicana. La spesa per interessi passerebbe infatti dai 60,4 miliardi del 2021 ai 50,5 del 2024. Ipotesi più che desiderabile, se fosse anche dotata del necessario realismo. Cosa di cui le vicende alle quali abbiano accennato fanno, almeno, dubitare. Venisse meno questo presupposto, i conseguenti equilibri di bilancio (spesa corrente, investimenti pubblici, welfare) ne sarebbero in qualche modo compromessi. Di quanto? Dipenderà dallo scarto eventuale tra desiderio e realtà.

Quindi massima attenzione: soprattutto nel prevenire. Nell’impostare cioè una politica economica che garantisca margini ulteriori rispetto al quadro contabile ipotizzato. Il che può realizzarsi solo se il tasso di crescita dell’economia nel suo complesso aumenterà oltre le stima preventivate. La giusta e continua insistenza sul tema di Mario Draghi. Per fortuna le ultimi rilevazioni dell’Istat fanno ben sperare. Nel terzo trimestre dell’anno la crescita è stata pari al 2,6 per cento del Pil, mentre quella tendenziale al 3,8. Le distanze, rispetto al punto più alto del 2019, toccato nel secondo trimetre di quell’anno, si sono così quasi annullate: permanendo una differenza pari solo all’1,7 per cento. C’è solo da aggiungere che la variazione acquisita per il 2021 è pari al 6,1 per cento: quindi superiore a quella pure stimata dal Governo pari al 6 per cento. Se l’ultimo trimestre dell’anno dovesse chiudersi con un’ulteriore variazione positiva, la crescita finale risulterà ancora superiore.

Come si vede: luci ed ombre. Da anni un attributo permanente dell’economia italiana che sono in pochi a vedere. Prevale infatti da troppo tempo quella tradizionale divisione tra apocalittici e integrati, che fa male al Paese. Quell’atteggiamento divisivo costruito sulla più o meno radicale contrapposizione ideologica, piuttosto che sulle cose reali. Dove la dialettica serve per aggiustare il tiro e migliorare le risposte nell’interesse del Paese. Basta guardare ai fondamentali. I problemi italiani sono tutti concentrati sul software più che sull’hardware, per usare un linguaggio colorito. Le risorse a disposizione sono addirittura superiori non certo ai bisogni da soddisfare, ma a come il sistema opera per soddisfarli. Ne deriva che, una diversa politica economica, potrebbe non solo migliorare le condizioni dell’offerta politica, ma tradursi in un benessere maggiore e generalizzato.

Il primo corno di questa contraddizione è rappresentato da un surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti che continuerà anche nel prossimo quinquennio ad un ritmo annuo superiore al 3 per cento del Pil. Per un totale, se le previsioni governative si dimostreranno esatte, pari ad oltre 280 miliardi. A dimostrazione di quanto sia avanzata l’industria nazionale che soddisfa la domanda estera. E che non si tratti di un dato solo congiunturale è dimostrato dal pregresso. Secondo i dati di Banca Italia, agli inizi del 2014 “la posizione patrimoniale netta dell’Italia nei confronti con l’estero” era deficitaria per un valore pari al 25,24 per cento del Pil. Negli anni precedenti i suoi equilibri macroeconomici erano stati garantiti solo dai prestiti esteri, che avevano consentito di pareggiare la bilancia dei pagamenti. Quella posizione debitoria è venuta completamente meno nel 2020: anno in cui sarà l’Italia a trasformarsi in creditore verso l’estero per un importo pari al 5,19 per cento del Pil. Che diverrà addirittura pari ad oltre il 14 per cento, nel 2024, se le previsioni del Governo troveranno conferma nella realtà.

Il risvolto di questa medaglia, in sé positiva, è dato ovviamente dall’eccesso di risparmio sugli investimenti, che questi dati fanno emergere. Si tratta dell’incapacità del sistema produttivo italiano di utilizzare le risorse disponibili per allargare le sue basi produttive, venendo incontro ai drammatici problemi di povertà e di abbandono che ne caratterizzano la storia più antica e quella più recente. Ed ai quali si è cercato (inutilmente) di far fronte alimentando fenomeni di assistenzialismo, invece di prendere il toro per le corna e far crescere di più l’economia del Paese. Ne è derivato un senso di impotenza e di frustrazione che, a sua volta, ha spinto le famiglie, mentre le imprese più efficienti tentavano la via della delocalizzazione e dell’investimento all’estero, a comprimere i propri consumi, nel timore del proprio futuro.

I dati sulla crescita del risparmio, ovviamente riflesso dell’anemia dei consumi, è impressionante. Secondo i dati dell’ABI, lo scorso settembre i depositi bancari ed il volume delle obbligazioni sottoscritte avevano raggiunto i 2.012 miliardi di euro. Pari al 113 per cento del Pil. Con un aumento del 18 per cento rispetto a 4 anni fa, maturato soprattutto, con un ritmo doppio, durante gli anni della pandemia. È il segno tangibile di una regressione. Della voglia di tirare i remi in barca, mentre la politica parla d’altro. Del resto se non sono le élite ad infondere fiducia, con la necessaria opera pedagogica, che dovrebbe venir anteposta al pur legittimo tornaconto personale o di partito, chi dovrebbe farlo? Famiglie ed imprese hanno altri compiti dai quali non possono essere distolti. E non certo gli strumenti per svolgere un ruolo di supplenza.

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