L’Arabia Saudita guida i Paesi del Golfo verso la transizione energetica: opportunità e problematiche, non solo economiche ma nell’ottica della politica internazionale. Con un ruolo chiave dell’Ue, spiega Bianco (Ecfr)
La notizia che il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, non fosse in Senato per la votazione sul Ddl Zan perché in Arabia Saudita è stata fortemente criticata dalla componente del Paese che sosteneva la legge per il contrasto all’omotransfobia (affossata ieri, mercoledì 27 ottobre). Ma al di là della polemica interna italiana, la presenza del senatore ed ex premier alla “Davos nel Deserto” ha degli aspetti significativi. Aspetti che vanno anche oltre i noti collegamenti di Renzi con il regno saudita e con il factotum Mohammed bin Salman, anche questi oggetto di polemiche in Italia.
La Future Investment Initiative (Fii) è una riunione che bin Salman (di seguito anche MbS) ha fortemente voluto in questi anni come dimostrazione che il suo paese sta avviando una profonda campagna di modernizzazione, la quale passa inevitabilmente dalla differenziazione dell’economia dal petrolio. Abbandonarlo non è solo una necessità economica in tempi di transizione energetica, perché nei fatti le monarchie del Golfo credono che gli idrocarburi ancora per anni saranno il motore del mix energetico globale.
Ma le iniziative come l’obiettivo delle zero emissioni saudite significano che quegli stessi intravvedono l’opportunità delle transizione e non solo sul piano del business. Posizionarsi sul tema serve anche per mandare al mondo un diverso messaggio di sé: cuore identitario della petromonarchia saudita (e delle altre del Golfo), il petrolio ha inquinato parte della proiezione internazionale di Riad, che vuole essere riconosciuto come qualcosa di più di un serbatoio di greggio. Anche per questo, MbS sarà presente alle riunioni della Cop26 a Glasgow cercando spazi tra i temi climatici ed energetici.
Uscire dalla concezione storica serve a MbS per dare del suo stato un’idea diversa, un segnale di evoluzione. E infatti, la differenziazione è accompagnata da lenti ma importanti, costanti e significative evoluzioni sul piano dei diritti civili. Tutto sebbene su bin Salman pesino episodi come l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi, che ha fatto ripiombare l’illuminato futuro governante saudita in una sorta di isolamento che nel 2018 – anno del macabro assassinio dell’editorialista del Washington Post, critico sul nuovo corso del potere – aveva mandato semi-deserta proprio quella Davos saudita a cui Renzi e altri stanno partecipando oggi.
A distanza di tre anni, bin Salman non ha del tutto recuperato terreno a livello di immagine, ma il suo Paese è un polo di attrazione di dinamiche internazionali – che riguardano anche e soprattutto l’Unione europea. Il Golfo, il Medio Oriente, sono il primo vicinato per l’Europa, parti di quel Mediterraneo allargato che segna il confine meridionale del Vecchio Continente. Per questo sono terreno diretto per test sulle capacità dell’Ue di proiettare i propri interessi geopolitici come blocco unico, ossia mettere alla prova la capacità di muoversi in autonomia strategica. Attività che parte da campi di contatto fondati prima di tutto sulla realtà pragmatica.
L’aspetto della transizione energetica è certamente uno di questi, se non il principale. La necessità dei Paesi del Golfo, Riad in testa (come emerso ovviamente anche al Fii), di emanciparsi partendo dai temi connessi all’energia (e dunque economia, ma anche immagine come si diceva), si abbina a quella dell’Ue che deve allinearsi sul tema energetico-climatico, flusso politico internazionale del momento. “Lo sviluppo del Green Deal (che proietta l’Ue verso un carbon neutral nel 2050, ndr) quale strumento di politica estera è fondamentale per il futuro dell’Europa come potenza globale”, spiega Cinzia Bianco, analista dell’Ecfr ed esperta di Golfo. E contemporaneamente “una cooperazione mirata – continua – sull’accordo potrebbe essere di cruciale importanza per le economie del Golfo”.
Sebbene i Paesi della regione vedano come problematiche le spinte europee – soprattutto quelle normative come il Meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM) – guardano al Green Deal anche come opportunità. Campi come l’interconnessione elettrica e l’idrogeno verde rappresentano i fronti più promettenti di cooperazione tra le parti in materia di energia pulita, mentre l’Ue cerca di costruirsi il ruolo di campione della sostenibilità. Un dialogo con gli attori mediorientali, grandi produttori di gas e petrolio, può accelerare la transizione verde secondo una narrativa win-win.
Per Bianco, autrice di un policy brief che sta girando tra i corridoi europei, l’Europa dovrebbe continuare a rimarcare l’instabilità regionale e i diritti umani nel suo dialogo con gli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo, anziché permettere che queste questioni cadano nel dimenticatoio, e allo stesso tempo cercare di convincere questi paesi a partecipare alla transizione verde usando una cosiddetta “diplomazia climatica”. Il punto è che creare nuove relazioni energetiche tra Europa e Golfo ha delle implicazioni strategiche anche per il Mediterraneo e l’Europa del Sud.
“L’idrogeno deve transitare dai paesi mediterranei (via nave o nuovi gasdotti) per arrivare in Europa, che sia Italia o Svezia. Idem le interconnessioni di reti elettriche”, spiga l’esperta dell’Ecfr: “Questo significa che paesi Mediterranei, sponda nord o sud, saranno nuovamente crocevia strategici di infrastrutture critiche e di flussi energetici, oltre che commerciali. Significa dunque che nuove possibilità di sviluppo economico e di rilevanza politica e geopolitica sono davanti a noi. Significa inoltre un nuovo senso potenziale per EastMed”. Non a caso, il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis era tra i protagonisti della Green Initiative saudita.