Il colosso cinese delle telecomunicazioni nella morsa delle sanzioni Usa affronta una scelta decisiva per il suo futuro. L’ipotesi più probabile? Non quella auspicata dal settimanale
Che ne sarà di Huawei? “Dovrebbe continuare a essere un alto papavero o lasciare sbocciare un centinaio di fiori più piccoli?”. Se lo chiede l’Economist.
“Il suo stesso futuro potrebbe essere in pericolo”, scrive il settimanale parlando della società simbolo delle difficoltà nelle relazioni tra Stati Uniti e Cina e duramente colpita dalle sanzioni di Washington, la cui intelligence l’accusa di spionaggio per conto del governo di Pechino. “Con il lungo braccio delle forze dell’ordine americane intorno al collo, è strangolata dall’impossibilità di accedere a tecnologie all’avanguardia, come i chip per smartphone 5G”.
Che fare ora?
Due le strade. La prima: resistere alle sanzioni americane e sperare, come ha spiegato il vicepresidente Victor Zhang parlando di “fase di seconda startup”, che il suo enorme budget per ricerca e sviluppo pari l’anno scorso a 21,8 miliardi di dollari, possa “fertilizzare” una nuova serie di attività commerciali che ridefiniranno il suo futuro. La seconda: smembrarsi silenziosamente, disperdendo un esercito di 105.000 ingegneri per favorire la crescita di centinaia di nuove imprese, attraverso una sorta di “distruzione creativa” schumpetariana.
“È assai probabile”, scrive l’Economist, che Huawei sceglierà la prima. Un po’ perché è “un’azienda privata con grande fiducia in sé”. Un po’ per la sua cultura “mai dire mai”. “Potrebbe diventare un campione nazionale per la missione del presidente Xi Jinping di rendere il Paese più autosufficiente nella tecnologia”, continua il settimanale. “E il governo di Pechino non sopporterebbe l’idea di vederla appassire sotto la pressione dello zio Sam”.
Un approccio duro che, però, “è disseminato di difficoltà”. Basti pensare alle sanzioni americane che hanno piegato il business degli smartphone – nonostante quanto emerso negli ultimi giorni dai documenti del Congresso americano, cioè che tra novembre e aprile Huawei, come il colosso cinese dei chip Smic, ha ottenuto licenze miliardarie negli Stati Uniti nonostante siano sulla lista nera.
Per questo, come più volte sottolineato su Formiche.net, Huawei sta procedendo a una diversificazione guarda a smart car, miniere di carbone, cloud e mercato energetico – nessuna di queste, guarda caso, dipende da semiconduttori all’avanguardia. “Promuovere la cultura delle startup all’interno dell’azienda può funzionare. Ma le nuove imprese non generano nulla di paragonabile ai ricavi delle attività di Huawei nel settore degli smartphone e delle reti”, scrive l’Economist.
Nei giorni scorsi su Formiche.net abbiamo raccontato la storia di Honor, marchio di smartphone che Huawei ha venduto l’anno scorso per dargli la libertà di eludere i controlli americani sulle esportazioni. Tanto che i nuovi telefoni Honor hanno accesso ai chip americani e al software e ai servizi di Google. La reazione dell’industria alla cessione è stata “davvero positiva” sia all’interno sia all’esterno della Cina, ha spiegato Ben Stanton di Canalys, una società di ricerca sulle telecomunicazioni, all’Economist. E ha anche detto di ritenere che i migliori ingegneri di smartphone di Huawei si siano trasferiti a Honor, mantenendo viva la cultura ingegneristica e di vendita della vecchia azienda.
Non sorprende dunque che Honor abbia attirato l’attenzione dei falchi americani come il senatore repubblicano Marco Rubio, che l’ha definita un “braccio del Partito comunista cinese” e una minaccia per la sicurezza nazionale, invitando l’amministrazione Biden a metterla nella lista nera. Questo, sostiene l’Economist, “è un promemoria di quanto sarà difficile per qualsiasi azienda all’ombra di Huawei scrollarsi di dosso tali accuse, che siano vere o no”.
Le ultime righe dell’articolo della prestigiosa rivista vengono utilizzare per sostenere la linea editoriale, cioè la seconda strada ipotizzata: “Meglio che i suoi ingegneri vaghino liberi, invece. È probabile che siano più creativi all’interno di piccoli gruppi che all’interno di una società – tanto più se quello che Wang chiama “il momento Sputnik della Cina” genera un’esplosione di innovazione interna. I cervelli liberati di Huawei potrebbero anche insegnare all’America una lezione su quanto possa essere controproducente il tecnonazionalismo impulsivo”.