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Il caso Lucano, tra verità e ipocrisie. La versione di Pellicciari

È successo altre volte, dallo Ius Soli al Ddl Zan, rieccoci qui. Il caso di Mimmo Lucano, condannato in primo grado, diventa pretesto per una strumentalizzazione politica che non è casuale, né innocua. Il commento del prof. Igor Pellicciari (Università di Urbino, Luiss)

Come da copione, la conclusione (in primo grado – quindi non definitiva) del processo a Mimmo Lucano ha riacceso la ritrita polemica sul tema degli aiuti a migranti e/o profughi. Ancora una volta due fronti contrapposti si sono ripresentati con i rispettivi argomenti di sempre, finendo con il trascendere la notizia di cronaca del momento.

La sentenza non dirime la questione. Condanne o assoluzioni delle vicende giudiziarie di turno (da Matteo Salvini a Luca Casarini) oramai determinano solo chi di volta in volta canta vittoria – con l’altro fronte a giocare in difesa, senza comunque concedere nulla agli argomenti opposti.

Sorge il sospetto che dietro a questa radicalizzazione vi sia un preciso calcolo da parte di forze politiche per polarizzare l’opinione pubblica e trarne un vantaggio in termini di consenso. Mancando la convenienza (forse anche la capacità) ad affrontare tecnicamente il problema, la Politica resta sullo scontro di valori e lascia tacitamente l’iniziativa alla Giustizia, salvo poi lamentarsene se l’esito del processo non è quello sperato.

È il ripetersi dello schema di gioco replicato su altri temi caldi (dai vaccini ai femminicidi, passando per Ius Soli e decreto Zan), che ha portato nel caso di Lucano all’appiattirsi sulla discussione se egli sia malfattore cinico o bandiera perseguitata della integrazione (o “bandito idealista da western” come definito con efficacia dal procuratore Luigi D’Alessio).

Così facendo, si evitano di affrontare vecchie ambiguità politico-amministrative mai risolte, che la vicenda dell’ex-Sindaco di Riace ha riproposto, al netto di quello che sono state le sue specifiche  responsabilità penali che spetta solo all’iter giudiziario stabilire.

Un’antica questione riguarda le competenze degli enti locali (in particolare comunali) in tema di immigrazione, ovvero in un settore che combina scelte sia in materia di politica interna che estera.

Con la fine della Prima Repubblica e l’introduzione dell’elettività diretta del Primo Cittadino, si è rafforzata politicamente l’azione dei Sindaci, senza tuttavia riadattare di conseguenza il sistema amministrativo di riferimento (il cosiddetto centralismo imperfetto all’italiana).

I nodi vennero al pettine proprio sulla questione dell’immigrazione, a partire dai rifugiati che si riversarono in Italia nei primi anni 90 in seguito alle crisi in ex-Jugoslavia.

Davanti alle rivendicazioni dei comuni capeggiati dall’allora sindaco di Bologna Walter Vitali per una maggiore autonomia di iniziativa internazionale con i Balcani (all’epoca strettamente collegate con l’accoglienza dei profughi dalle zone di guerra), la Bicamerale di Massimo D’Alema fece muro. Si propose un modello di Cooperazione Decentrata che, a dispetto del nome, trasferiva il centralismo ai livelli regionali, alle cui direttive i comuni avrebbero dovuto adattarsi.

Questa dinamica ha funzionato poco e i sindaci – in particolare quelli attivi – si sono trovati a volteggiare nel settore internazionale come dei trapezisti senza rete, in perenne rischio di frantumarsi al suolo al primo errore.

Inoltre, collegata e facilitata da questo quadro amministrativo ambiguo nonché dalla congiuntura con una crisi economica duramente riversatasi sui bilanci comunali, vi è stata la tentazione della Politica – in particolare nelle aree più depresse del Paese – di risollevare le casse dei territori amministrati candidandoli ad ospitare e gestire gli immigrati in arrivo.

Di per sé non vi sarebbe nulla di male, se non fosse che i primi cittadini e i rappresentanti politici coinvolti, temendo di pagare un prezzo alto in termini di consenso per queste scelte, non hanno esitato a fare uno spropositato ricorso alla retorica per giustificarle.

Sindaci e ministri hanno promosso territori e operatori a loro vicini con argomenti solidali, tralasciando di sottolineare i benefici economici che arrivavano a strutture altrimenti in disuso (su tutte, valga l’esempio del famigerato Cara di Mineo – contro la cui chiusura all’epoca protestarono vivamente in primis quanti vi lavoravano, temendo di restare disoccupati).

Come colpisce oggi sentire Leoluca Orlando candidare Palermo ad ospitare e gestire gli afghani in fuga da Kabul, giustificando la scelta solo con la storica generosità del popolo siciliano.

Questo eccesso di retorica ha poi creato storpiature che hanno contribuito a forgiare il taglio ideologico nostrano sull’immigrazione.

In primo luogo, si è volutamente mantenuta confusione tra le tipologie di profugo richiedente asilo e migrante economico. Si sono sovrapposti i due termini, giacché per i primi la pubblica opinione ha in genere comprensione ed empatia molto maggiore che per i secondi.

Anche qui l’ambiguità parte da lontano e già nei primi anni ‘90 molti sindaci, temendo la reazione del proprio territorio, presentarono interventi di edilizia popolare a favore dei Rom come aiuti a favore di generici “profughi della ex-Jugoslavia”, per cui l’Italia di allora – ricca e solidale – provava sincera compassione.

Un altro danno creato da questa retorica – forse peggiore, perché strutturale – è stato l’impatto negativo che ha avuto sulle stesse politiche di gestione dell’immigrazione irregolare, portandole al concentrarsi su modelli di intervento emergenziale.

In particolare, si è allungata eccessivamente la durata della prima accoglienza fornita localmente all’immigrato appena arrivato nel paese ospitante.

Fase nel mondo considerata marginale, tecnica e di breve durata, essa è altrove concepita idealmente come ponte verso interventi più mirati per portare lo straniero ad integrarsi legalmente e socialmente nel nuovo contesto, rendendosi autonomo.

Da noi, invece, giganti politici dai piedi amministrativi d’argilla hanno preferito appellarsi alla categoria immateriale dello “Spirito dell’Accoglienza” per giustificare la continua spesa di ingenti risorse che richiede una prolungata gestione logistica di aiuti primari all’ immigrato. Condannandolo al triste ruolo di utile vittima, “Beneficiario-per-sempre”.


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