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Più agroalimentare, più Pil. Il modello italiano di Coca-Cola

L’industria agroalimentare italiana si conferma un’eccellenza e una fonte di ricchezza per l’economia e i territori. Ma bisogna preservarla da falsi miti e idee fuorvianti. Colloquio con Fabrizio Perretti, professore ordinario presso il Dipartimento di Management e Tecnologia della Bocconi

Ritrovarsi un’eccellenza tra le mani è una fortuna, ma ciò non vuol dire che non vada alimentata e, soprattutto, protetta. La filiera dell’agroalimentare continua a rappresentare uno dei principali biglietti da visita del Sistema Italia in Europa e nel mondo. Se poi i tempi sono quelli della pandemia allora il contributo dell’industria diventa ancora più prezioso. Non è certo un mistero che il prodotto alimentare italiano sia associato a qualità e attenzione al processo di produzione, rispetto delle materie prime e sostenibilità. Ma soprattutto associato a crescita e benessere nei territori. In una parola, Pil.

Per questo l’Italia deve ripartire dai fondamentali se vuole scrivere un futuro post-pandemico. L’industria agroalimentare, a cui Formiche dedicherà un Live Talk il prossimo 7 ottobre, è una di queste certezze. Un esempio è Coca-Cola, presente in Italia attraverso tre società, Coca-Cola Italia, Coca-Cola Hbc Italia e Sibeg. Uno studio realizzato da Sda Bocconi School of Management ha analizzato l’impatto socio-economico delle tre aziende sull’economia italiana.

Ammontano a oltre 870 milioni di euro, lo 0,05% del Pil nazionale, le risorse generate in Italia e destinate alle famiglie, alle imprese e allo Stato dalle società Coca-Cola e a oltre 22 mila i posti di lavoro creati direttamente e attraverso il suo indotto. Dallo studio della Bocconi emerge inoltre che, se la presenza di Coca-Cola venisse meno, oltre ad azzerare l’impatto economico su scala nazionale, ci sarebbero importanti conseguenze a livello occupazionale, soprattutto in quelle Regioni dove sono presenti uffici e stabilimenti delle tre società: la crescita del numero di disoccupati registrerebbe infatti +1,2% in Piemonte, +5,3% in Lombardia, +1,7% in Veneto, +1,8% in Abruzzo, + 0,3% in Campania, +1,2% in Basilicata e +0,3% in Sicilia.

Queste, insomma, le potenzialità dell’industria alimentare italiana. Formiche.net ne ha parlato con Fabrizio Perretti, professore ordinario presso il Dipartimento di Management e Tecnologia della Bocconi e curatore dello studio. “Il messaggio di fondo che lo studio vuole dare è che l’industria agroalimentare italiana è un bene da proteggere e preservare, perché è un settore che crea lavoro e benessere sul territorio. Molte volte abbiamo sentito parlare di tasse su questo o quel prodotto, e non parlo solo dello zucchero e delle plastica. Il problema è tenere sempre ben presente che simili operazioni impattano quasi sempre sul valore aggiunto che tali settori apportano all’economia del Paese”, spiega Perretti.

L’esperto restringe il campo d’azione. “Quando si parla di grandi aziende, magari di multinazionali, si tende sempre a pensare a una specie di pirateria: imprese che vengono qui, depredano, usufruiscono di incentivi dello Stati e se ne vanno, lasciando dietro il deserto. Non è così per Coca-Cola, azienda molto ben radicata in Italia e un’azienda italiana a tutti gli effetti. Non c’è nessuna vena predatoria, rapace, sia chiaro, non bisogna fare questo errore, questa commistione tra aziende che investono e credono nell’Italia e chi viene invece qui per sfruttare e basta”, spiega Perretti.

“Lo studio dimostra bene come Coca-Cola investa sul tessuto e allo stesso tempo investa in sostenibilità e ambiente, dimostrandosi una realtà che risponde a delle esigenze, che muta al mutare del contesto. Basti solo pensare che Coca-Cola impiega un maggior numero di donne, mentre, con riferimento alla media delle imprese attive in Italia, conta un più alto numero di donne dirigenti (44% a fronte del 17%) e quadri (36% contro 29%).”

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