Lo Stato islamico nel Khorasan aumenta le proprie attività e pone davanti ai Talebani e alle nazioni coinvolte dalla situazione in Afghanistan una grande sfida sulla sicurezza regionale
Negli ultimi giorni, l’agenzia media Amaq News, che propaganda le azioni dello Stato islamico, ha rivendicato due attacchi da parte dell’ISKP (o Isis-K). La sigla, fino a qualche settimana fa nota solo agli addetti ai lavori, è diventa mainstream dopo l’enorme attentato in cui quasi duecento persone hanno perso la vita all’aeroporto di Kabul, mentre cercavano di imbarcarsi sugli aerei usati per evacuare cittadini stranieri e afghani dopo la presa del potere dei Talebani. ISKP sta per Islamic State Khorasan Province, la filiale nell’Asia centrale del gruppo che instituì il Califfato nel 2014: il cuore pulsante di questa provincia, che si estende su un territorio vasto seguendo i lineamenti della regione storica del Khorasan, è proprio in Afghanistan. E secondo diverse analisi sta aumentando le proprie attività.
Il gruppo ispirato dal Califfo Abu Bakr al Baghadi è attualmente la principale forma di opposizione al governo talebano – opposizione armata e non potabile perché ancora più estremista, che conduce le proprie attività secondo dinamiche terroristiche e basate su un ultra-settarismo religioso. L’obiettivo degli attacchi è dimostrare che il Paese non è sicuro, che i Talebani non ne hanno un controllo completo, che la loro amministrazione crea malcontento il quale può sfociare (soprattutto tra i più giovani) verso il proselitismo califfale. Fattori che sono una realtà. Uno degli attentati di questi giorni ha colpito un auto in cui viaggiavano alcuni Talebani a Jalalabad, nella provincia del Nangarhar, tra i centri del potere talebano. Tre persone della stessa famiglia sono morte, altre quattro rimaste ferite quando un dispositivo esplosivo ha fatto saltare in aria il loro van.
Un altro attentato è avvenuto in Pakistan, nel KPK, la Provincia della Frontiera del Nord Ovest, dove a essere ucciso in un assassinio rivendicato da Amaq è stato un medico yunani, membro piuttosto noto della comunità Sikh pakistana. Solo a Peshawar, soprattutto nel quartiere Jogan Shah, vivono 15mila Sikh spesso vittime di episodi di violenza: se l’attacco dello Stato islamico in Afghanistan tende a dimostrare che i Talebani non sono così forti come intendono raccontarsi, quello contro il medico d’origine indiana vuole incunearsi dal punto di vista narrativo all’interno di questioni aperte di carattere regionale. La vicenda infatti si è portata dietro l’indignazione dell’India, che ha sottolineato come il Pakistan non garantisca sufficiente sicurezza alle minoranze. Implicito: alla luce del ritorno dei Talebani questa insicurezza potrebbe aumentare.
Lo Stato islamico è capace di sfruttare le faglie socio-politiche nelle regioni in cui si propaga – l’ascesa in Iraq, e la successiva espansione in Siria, si legano a questo, a cavallo delle divisioni tra sunniti e sciiti. Il ritorno al potere dei Talebani apre a condizioni di instabilità: l’organizzazione, sebbene abbia preso rapidamente Kabul spaventando le sfiduciate forze locali, nel paese ha tutt’altro di un controllo capillare. E contrastare le azioni dell’Is è complicato anche all’interno di territori in cui i collegamenti polizia-intelligence-comunità funzionano. In Afghanistan esistono aree senza legge, dove il contesto tribale esercita il potere. Nel paese inoltre c’è malcontento, perché la situazione economica, e dunque le condizioni di vita, sono pessime. E difficilmente i Talebani riusciranno a risollevare la crisi se non si dimostreranno efficaci.
Ed è questo il tema di fondo: il rischio è che si apra una stagione di guerra civile legata al rafforzamento delle linee baghdadiste; per tale ragione, alcuni Paesi come quelli del Golfo, o la Cina e la Russia, o ancora il Pakistan, seguono per necessità un approccio estremamente pragmatico alla questione e aprono alla possibilità di creare relazioni con i Talebani. L’afflusso di fondi a cui pensano potrebbe per esempio permettere all’organizzazione al potere di accontentare la popolazione, eliminando uno dei presupposti al proselitismo baghdadista; contemporaneamente in cambio di questo si potrebbe ottenere un maggiore, reale impegno nella lotta all’ISKP.