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Libano, se i cristiani cambiano strada può cambiare il Paese

Oggi bisogna esasperare la crisi sociale per favorire l’accordo internazionale che si vorrebbe favorire per riaprire la pipe-line che dall’Egitto arriva in Libano passando per Giordania e Siria. Così il regime siriano otterrebbe un importante riconoscimento internazionale, rompendo l’isolamento. In questo quadro drammatico il Libano diviene una carta di scambio, una pedina in un gioco che vede molti cristiani favorire l’asse basato su Assad e Hezbollah. La riflessione di Riccardo Cristiano

Notizia. In Libano, Paese governato o per meglio dire sgovernato da una nomenklatura che dalla morte di Rafiq Hariri, assassinato in piazza nel 2005, si sposta sempre di più sotto il controllo di Hezbollah, esiste un gruppo di opposizione. È un gruppo interconfessionale formato da esponenti di primo piano di quello che è stato l’establishment libanese che da anni chiedono un cambio di passo e di leadership e quindi sono usciti dalla nomenklatura. Si chiama “Madonna della Montagna”, dal santuario dove i suoi promotori, maroniti, hanno avviato l’impresa, allargandola poi a sunniti, sciiti, drusi di primissimo piano, ma usciti anche loro dai radar governativi da quando Hezbollah ha preso il sopravvento in tutti i campi confessionali. È interessante leggere il loro comunicato, pubblicato pochi giorni fa dalla stampa locale con notevole risalto: “Un vero cambiamento si avrà soltanto quando una maggioranza chiara si opporrà all’occupazione iraniana del Libano”. È stata una conversazione telefonica tra il presidente francese e il presidente “non eletto” dell’Iran a dare il via libera libera alla formazione del nuovo governo presieduto da Najib Mikati!

Osserviamo con profondo dispiacere che i partiti politici si preparano alle prossime elezioni parlamentari come se il Libano fosse ancora uno Stato libero e indipendente, governato sulla base di testi legali e costituzionali e in accordo con le risoluzioni internazionali, un’illusione smentita dal fatto che il Paese è, attualmente governato da una milizia illegale e armata, e sottoposto a una mal travestita occupazione iraniana. Hezbollah, che ha abolito i confini con la Siria in favore di operazioni illegali di “contrabbando” e minacciato apertamente la magistratura, sta ora tentando di completare il suo golpe contro le fondamenta repubblicane, prendendo di mira il processo elettorale. Anticipando esiti elettorali che sarebbero sfavorevoli, il capo del suo gruppo parlamentare ha minacciato gli elettori negando la loro possibilità di modificare la cosiddetta “equazione” imposta da chi agisce per procura iraniana e dai suoi partiti armati. Allo stesso tempo alcune forze politiche si riferiscono alla possibilità di sabotare la partecipazione dei libanesi all’estero al voto – se avrà luogo! – mentre altri sostengono l’elezione di 6 membri del Parlamento da parte di tutti i libanesi all’estero e altri negano il loro diritto di voto.

Un vero cambiamento si avrà soltanto quando i libanesi accetteranno attivamente la necessità di liberarsi dell’occupazione iraniana del Libano. Minare le fondazioni dell’occupazione è un prerequisito per la rinascita del Libano. Questo si potrà ottenere soltanto tramite le dimissioni del Presidente della Repubblica, che ha violato il suo giuramento e ha offerto copertura costituzionale all’occupante, e con quelle del Primo ministro e del Presidente del Parlamento, collusi con Hezbollah e con l’agenda dell’occupazione iraniana”.

Esagerano? Il fatto più importante è che da tempo in Libano  nel mirino della politica non ci sono gli autori dell’esplosione para-atomica che ha devastato ormai più di un anno fa il porto di Beirut, ma i magistrati che indagano, o vorrebbero indagare. Dopo aver ottenuto la rimozione del primo magistrato inquirente, ci hanno riportato con il secondo. Due ministri, ora non più in carica, passibili di rinvio a giudizio, hanno chiesto la sua rimozione. Non l’hanno ottenuta, ma ora sono tornati alla carica, ma con un altro collega questa volta, chiedendo alla Suprema Corte di togliere al magistrato Tarek Bitar l’inchiesta. Il portavoce del Presidente del Parlamento gli ha subito dato man forte, affermando che si stanno violando tutte le regole costituzionali, cosa che in occasione dei precedenti tentativi di rimozione, sia di quello riuscito che di quello fallito, non era accaduta.

Dunque il Paese sopravvive senza benzina, senza corrente elettrica, funzionano solo i generatori privati, per chi li ha, che però riescono a garantire energia elettrica solo per 6 ore al giorno. La politica però si occupa di rimuovere il magistrato inquirente sulla morte di Beirut e le elezioni di primavera sono in dubbio.

Il patriarca maronita, ieri, ha affermato che un rinvio del voto sarebbe esiziale ma ha chiesto all’Onu di vigilare davvero sul voto. Intanto però gli Stati Uniti rinviano la pubblicazione del rapporto, previsto per legge nei giorni scorsi, sull’impero finanziario di Hezbollah. È questo uno dei motivi per cui Beirut deve restare al buio. Bisogna esasperare la crisi sociale per favorire l’accordo internazionale per riaprire la pipe-line che dall’Egitto arriva in Libano passando per Giordania e Siria. Così il regime siriano otterrebbe un importante riconoscimento internazionale, rompendo l’isolamento. In questo quadro drammatico il Libano diviene una carta di scambio, una pedina in un gioco che vede molti cristiani favorire l’asse basato su Assad e Hezbollah.

Si chiama “alleanza delle minoranze”, e pone i cristiani dalla parte dei regimi e dei gruppi ufficialmente sciiti, la minoranza dell’islam, contro la maggioranza sunnita. Ma questa visione è stata proprio in queste ore respinta da un importantissimo documento presentato solennemente nella Chiesa di Sant’Elias da un gruppo ecumenico di teologi e teologhe, esperti ed esperte di questioni sociali. È un testo che condanna le scelte del passato e apre a prospettive nuove che seguono la linea di papa Francesco. Nell’equipe figurano tra gli altri la professoressa Souraya Bechealany, già segretaria generale del Consiglio sulle Chiese del Medio Oriente, e il sacerdote maronita Rouphael Zgheib, direttore nazionale delle Pontificie Opere Missionarie del Libano. Vi si afferma che alcune realtà ecclesiali “per ottenere assistenza da alcuni gruppi cristiani americani ed europei, adottano idee che militano contro la convivenza, esagerano le sofferenze dei cristiani e promuovono la teoria della persecuzione sistematica da parte dei musulmani”. Altri soggetti ecclesiali puntano tutto sulla strategia della “alleanza tra minoranze” o sulla protezione di regimi autoritari come uniche vie per assicurare la sopravvivenza in Medio Oriente delle comunità cristiane autoctone.

L’Agenzia vaticana Fides ha riassunto così le valutazioni espresse nel documento su queste politiche: “Si tratta di scelte e orientamenti fuorvianti, che rischiano di pesare negativamente sul futuro delle presenze cristiane nell’area mediorientale e di rinnegare la stessa missione a cui oggi la Chiesa chiamata nella parte del mondo ha vissuto la sua vita terrena”. La prospettiva suggerita è quella di riconoscere la comunanza di destino dei cristiani con i concittadini di altre fedi e “favorire il loro coinvolgimento nella sfera pubblica e la lotta per uno Stato civile”.



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