Dal G20 di Roma un riconoscimento forte, deciso e forse esplicito come non mai alla leadership di Draghi. Ma sul premier pende nel frattempo un grande interrogativo (quirinalizio). Il mosaico di Carlo Fusi
Con alle spalle una crescita del Pil superiore alle attese tanto da poter sfiorare il 7 per cento, simbolo della volontà italiana di riprendere il terreno perduto con la pandemia, Mario Draghi guida il G20 – grande occasione per l’asse Usa-Ue di mettersi in prima fila a favore della transizione ecologica e realizzare nuovi rapporti di forza con gli altri player internazionali, Russa e Cina – acquisendo lo status di una star anche qui come forse nessuna previsione aveva potuto immaginare.
I riconoscimenti espliciti di Joe Biden e quelli più sommessi ma non meno concreti degli altri partner Europei con la Francia in prima fila, sono il segno che l’Italia ha riconquistato un ruolo internazionale più vicino alla sua storia e alle sue ambizioni.
Può essere che il summit non trovi un accordo sulla riduzione delle emissioni inquinanti e che anche il vertice di Glasgow finisca in un nulla di fatto. Ma sbaglia di grosso chi bolla queste occasioni come inutili e retorici bla bla. Fuori di questo bla bla, infatti, c‘è il disordine e la logica del più forte.
L’esatto contrario del meccanismo democratico che non a caso il presidente Usa ha richiamato come tesoro più prezioso dell’Occidente: questo sì da esportare non sulla punta delle baionette bensì attraverso risultati concreti nella lotta al Covid da attuarsi anche mediante la destinazione di milioni di dosi all’Africa e ai Paesi del Terzo mondo, cosa che appunto solo l’Occidente può realizzare; nella tassazione delle multinazionali Big Tech; nella individuazione di una strategia comune nei riguardi dell’Afghanistan dei Talebani.
Ma ciò che più interessa all’Italia è il riconoscimento forte e deciso che è stato tributato in maniera mai così esplicita alla sua leadership di governo. È merito sia dell’azione di Draghi quanto, è giusto riconoscerlo, dello sforzo della stramba e larga maggioranza dei quasi unità nazionale che tra mille sommovimenti è riuscita a rimanere stretta attorno al presidente del Consiglio.
È palese che l’America di Biden considera Roma punto di riferimento privilegiato per il confronto nei riguardi di Russia e Cina. E lo fa perché ritiene il premier la figura più autorevole in questa fase. Non è davvero poco e non era affatto scontato. Proprio per questo non deve apparire fuorviante sottolineare che la Ue e SuperMario hanno una mina interna che è esplosa e che può provocare lacerazioni devastanti.
Si tratta della Polonia e dei Paesi dell’Est ex comunisti che intendono sottrarsi alla giurisdizione prevalente di Bruxelles riguardo i loro ordinamenti interni. Varsavia e buona parte degli altri di Visegrad vedono il diritto comunitario come una inammissibile intromissione nella loro autonomia e sono arrivati a ricordare l’opposizione a suo tempo svolta contro il Terzo Reich: roba da brividi. Draghi e la UE hanno una bella gatta da pelare.
Il loro successo in questo week end, fatto non solo e non tanto di foto-opportunity, può rinsaldare in maniera decisiva l’edificio dell’Unione. Se il G20 dovesse chiudersi con un bilancio positivo, entrambi ne verrebbero rafforzati. In realtà, come abbiamo detto, SuperMario una sua forza specifica ce l’ha eccome, e il paradosso è che mentre in Italia c’è che lavora per sbriciolarla, nel resto del mondo quella forza e quel profilo cresce e si consolida.
È inevitabile raffrontare questa situazione con i passaggi che attendono il quadro politico interno, primo fra tuti l’elezione del nuovo capo dello Stato. Vada come vada, l’unica cosa che non possiamo permetterci è di relegare Draghi in una posizione periferica, non mandandolo al Colle e creando altresì le condizioni per indebolirlo come capo del governo. Sarebbe un harakiri incomprensibile e improntato di perverso masochismo.