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Il Nobel alla Letteratura 2021 e una riflessione su candidati e vincitori

L’ambito premio ha lasciato indietro il disimpegno o l’alterità esistenziale, dell’ombra e del dolore, per abbracciare una visione civica e politica. È un ottimo progresso: a questo punto nei prossimi anni potrà giungere il momento per rendere il premio universale e rivolto a tutti, dunque anche ai giovani lettori, a coloro che intendono sviluppare la propria immaginazione, non da ultimo a coloro che – per varie ragioni – non dispongono di un bagaglio culturale elevato

Quest’anno il premio Nobel per la letteratura è stato assegnato allo scrittore tanzaniano (ora naturalizzato britannico) Abdulrazak Gurnah (nato a Zanzibar il 20 dicembre 1948).

A seguito della sua premiazione, come già accaduto nei recenti anni, si verifica un fenomeno culturale assai proficuo per la comunità letteraria e civile. Normalmente si è curiosi di scoprire le opere dell’autore premiato: di conseguenza si accorre ad acquistare, sfogliare, capire i libri dello scrittore o della scrittrice, al fine di carpire rapidamente i fondamenti del suo pensiero e del suo messaggio politico (l’assegnazione del Nobel ha sempre valenza, nel senso edificante del termine, politica). La giuria infatti tende a valorizzare, almeno negli anni recenti, profili non particolarmente noti al grande pubblico, di modo da far “crescere” (chi scrive non ama particolarmente questo termine, ma ci si attenga al vocabolario del dibattito) il mondo umanistico. Ma quest’ultimo non “cresce”, casomai si arricchisce, si addensa, diviene sempre più stratificato, sì da creare quel famigerato flusso (di vita, valori civili, sentimenti ed emozioni istituzionali) che in fondo è motivo di orgoglio per la nostra specie. Perché se è vero che oggi si parla di innovazione e sostenibilità dello sviluppo, la comunità letteraria ha sempre creduto nella crescita infinita e nell’affermazione di sempre maggiori creatività e diritti: in poche parole nelle infinite (e quindi inesauribili) potenzialità dell’ingegno umano – di cui tutto il resto è solo precipitato logico secondario.

Se è vero che tutta l’arte è dunque politica, si può supporre che anche la rinuncia a una visione di questo tipo sia politica. Come al solito, ragionare e ricostruire i sistemi costituisce operazione di filosofia morale, più che di politica. Perché è vero che la letteratura è normalmente l’esemplificazione più efficace e rispondente a criteri di normalità della suddetta disciplina: è difficile ipotizzare di fare filosofia o politica in modo astratto. Lo si può fare in due modi: nella vita reale oppure, appunto, scrivendo letteratura, ancora meglio se nella sua declinazione narrativa.

Una nota di demerito, in questo senso, può essere in modo tiepido e lato effettuata nei seguenti termini: il Nobel letterario forse si è allontanato da coloro che leggono per fantasticare e per costruire dunque regni speculativi volti a dare valore al quotidiano. Si pensi al solo Haruki Murakami, narratore di valore e in grado di coniugare valori etici e impianti immaginifici del tutto stupefacenti (tra i vari, 1Q84, L’assassinio del commendatore, Dance dance dance, editi in Italia da Einaudi). Favorito più volte, il grande romanziere giapponese è stato poi messo da parte con cadenza annuale (ed egli stesso ha mal reagito dinanzi alla premiazione del cantautore statunitense Bob Dylan, che in fondo è un musicista, o al massimo autore di versi).

In passato l’Accademia ha selezionato gli ottimi Coetzee (in Italia con Einaudi) e Saramago (tradotto da Feltrinelli), anch’essi creatori di grandi fiabe politiche, a volte psicanalitiche e interiorizzate, superando dunque il fantomatico e kierkegaardiano aut-aut che ha colpito tutta la letteratura mondiale: dolorose riflessioni familiari da una parte (si pensi ai vari Roth, Franzen, McEwan, alla cui abilità narrativa si accompagna un vago senso di doverizzazione), mentre dall’altra, letteratura di evasione lontana da qualsivoglia sensibilità (i noir seriali e ripetitivi, tanto statunitensi quanto europei).

Giusto dunque escludere Philip Roth finché in vita, dal momento che secondo molte e autorevoli ricostruzioni, l’autore stesso ha inteso rinunciare alla costruzione di qualsivoglia sistema gnoseologico, in favore invece dell’illustrazione tormentata delle proprie contraddizioni di uomo (lo ammette lui stesso ne I fatti, editi in Italia da Einaudi, 2013).

Per giungere a una sintesi conclusiva, il Nobel ha giustamente lasciato indietro il disimpegno o l’alterità esistenziale, dell’ombra e del dolore, per abbracciare una visione civica e politica. È un ottimo progresso: a questo punto nei prossimi anni potrà giungere il momento per rendere il premio universale e rivolto a tutti, dunque anche ai giovani lettori, a coloro che intendono sviluppare la propria immaginazione, non da ultimo a coloro che – per varie ragioni – non dispongono di un bagaglio culturale elevato. Specie questi ultimi devono essere messi nelle condizioni di comprendere e godere quanto leggono e apprendono. Questo è il senso di una letteratura coinvolgente e, soprattutto, etica.



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