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L’Islam (grazie a Francesco) cerca di chiudere la sua guerra dei 40 anni

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Le diplomazie cercano una pace fredda e senza considerare i popoli. L’incontro tra al-Tayyeb e al-Sistani, favorito dal papa e ora dato per imminente, potrebbe dare un’anima e una prospettiva nuove a una pace tra despoti

L’incontro promosso dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma nei giorni appena trascorsi potrebbe essere ricordato come quello che ha assistito agli ultimi accordi prima dell’annuncio della fine della guerra dei quarant’anni tra sunniti e sciiti.

Infatti ieri a Roma il Grande Imam di al-Azhar, lo sceicco Ahmad al-Tayyeb, si è lungamente intrattenuto con alcuni alti dignitari sciiti presenti e oggi un’intervista esclusiva concessa dal nipote del Grande Ayatollah al-Khoei, già guida della scuola di Najaf, annuncia che tra fine ottobre e inizio novembre l’imam di al-Azhar si recherà in Iraq dove incontrerà la guida spirituale degli sciiti, l’ayatollah al-Sistani, che guida da lungo tempo la scuola teologica di Najaf, la città irachena dove è sepolto il padre dello sciismo, Ali.

Questo annuncio, ancora ufficioso dunque, dà un senso tutto nuovo e profondo al fatto che ieri papa Francesco nel suo discorso ha citato proprio una frase attribuita ad Ali. Nell’intervista, concessa al direttore del sito Anwaj.media, Muhammad Ali Shabani, l’autorevolissima fonte sciita ricorda che dopo aver firmato il Documento sulla fratellanza umana con l’imam di al-Azhar, principale istituzione teologica dell’islam sunnita, il papa in occasione del suo viaggio iracheno si è recato a Najaf, dove ha incontrato l’ayatollah al-Sistani, sempre nel nome e nel segno della fratellanza. Una sorta di shuttle-diplomacy papale tra i due versanti islamici ritenuti in guerra perenne ma in realtà in guerra da quarant’anni, cioè da poco dopo la rivoluzione iraniana.

Prima il conflitto Iran-Iraq, poi l’invasione del Kuwait e quindi quella americana dell’Iraq hanno aperto le porte del controllo dell’Iraq all’Iran, ansioso di esportare la sua rivoluzione fino al Mediterraneo. La guerra siriana e quella libanese sono stati i passi successivi di questo tragico conflitto teso a conquistare militarmente lo spazio islamico. Riad ha temuto che le primavere arabe opponessero all’espansionismo iraniano un movimento democratico e libertario arabo, ed ha dirottato la rivoluzione siriana per controllarla militarmente e politicamente con le milizie armate. L’incendio si è esteso, ha coinvolto le comunità cristiane finite col dimenticare il senso della loro presenza in quel mondo e avvicinatesi sempre di più all’asse khomeinista in cerca di protezione.

Questa linea è stata ribaltata in Iraq, dove il patriarca caldeo Sako ha schierato la sua Chiesa né con gli uni né con gli altri, ma con i movimenti di piazza che chiedono una riforma radicale del sistema tribale e comunitario. Si chiama “cittadinanza” la scelta del patriarca Sako, contro l’alleanza delle minoranze sostenuta dia patriarchi siriani. Quando Francesco ha firmato ad Abu Dhabi il Documento sulla Fratellanza umana con l’imam di al-Azhar entrambi vi hanno annunciato la scelta della cittadinanza, la fine dell’epoca delle minoranze e maggioranze religiosamente determinate.

È stato l’addio a secoli di ideologia islamica senza alcun fondamento coranico. E un invito ai cristiani a fare altrettanto: basta cercare protezioni nella sfiducia per gli altri, ma ricerca e costruzione del senso di appartenenza allo stesso popolo, alla stessa “nazione”. Da questa piena convergenza di visioni è nato il viaggio del papa in Iraq, gestito dal patriarca Sako in questa visione. E da questa visione è derivato l’incontro con al-Sistani a Najaf. Sunnismo e sciismo non sono in guerra mortale, ma le due ali su cui può volare l’islam, ha detto tempo fa al-Khoei, voce illuminata dello sciismo mondiale. Il contrasto che oppone al-Sistani al khomeinismo è noto da decenni, visto che lui non ha mai avallato l’eresia teocratica khomeinista, come al-Tayyeb non ha mai avallato l’eresia puritana del mondo sunnita, quella wahhabita. Ora al-Khoei annuncia anche che l’incontro di Najaf avrà uno sviluppo in Vaticano, entro l’anno: un incontro a tre tra Francesco, al-Tayyeb e un delegato del troppo anziano al-Sistani, impossibilitato a lasciare Najaf per la sua precaria salute.

Il mondo arabo ridotto in macerie e l’Iran ridotto alla fame guardano a questo incontro, alla cui possibilità pochi credevano, con scetticismo. Sarà vero? Se così fosse, e dubitare è sempre doveroso in contesti del genere, vorrebbe dire moltissimo. Il lavorio diplomatico per creare almeno una tregua tra i belligeranti è noto e anche evidente. Gli ostacoli concreti sono tanti: il primo e il più grave è il futuro di Assad. Gli arabi stanno aprendo al disgelo con il filo iraniano Assad dicendo: se non si allinea più completamente a Teheran potremmo aprire all’idea di finanziare la ricostruzione della Siria. Il secondo problema è la rinuncia a distruggere l’altro: rinuncia da parte dei miliziani filo sauditi e rinuncia da parte di Tehran, Hezbollah, Houti e altri ancora. Teheran sa bene di aver vinto in Siria e Libano riducendo però quei paesi in macerie. Ma vincere equivale a governare macerie. Teheran non ha risorse da investire.

Chi lavora per trovare il punto d’incontro è Mosca, ansiosa di divenire il vero dominus regionale e di ridimensionare Teheran. In Libano ancora poco, ma in Siria il suo potere anche territoriale è enorme. Anche Mosca non può ricostruire la Siria. Dunque si devono accettare le richieste di Arabia Saudita, Egitto, Emirati, Giordania. Da questo negoziato in atto, come ha dimostrato la telefonata del monarca giordano ad Assad dopo un decennio di gelo, nascerebbe una pace fredda – come disse Obama – cioè un ritorno al più triste dei passati, una pace senz’anima, quindi un semplice armistizio.

L’incontro tra al-Tayyeb e al-Sistani però potrebbe cambiare il quadro, dare a un accordo di gerarchie screditate e detestate dia loro stesi popoli un valore futuro. Favorito dalla grandissima diplomazia di Francesco, l’incontro e poi il colloquio a tre in Vaticano potrebbero ufficializzare proprio questa prospettiva: quei popoli, fatti da cristiani e musulmani, hanno bisogno di una prospettiva di vita, non solo della gentile concessione di poter sopravvivere.

Tornare nelle caverne del passato totalitario non darebbe speranze ai giovani, alle donne, ai fermenti perseguitati dal 2011. Ma archiviare la guerra dei quarant’anni e le sue ideologie teocratiche, vedere i cristiani guidare non primitive alleanze di minoranze ma prospettive di scopo comune nel pluralismo sociale come in quello religioso, aprirebbe speranze che riporterebbero i cuori a pensare, le teste ad amare. Se le parole di al-Khoei saranno davvero seguite da fatti anche l’Europa, finita ai margini della storia del Mediterraneo e non solo, potrebbe convincersi di poter avere un ruolo da svolgere. E sarebbe un ruolo enorme.

Se le cose andranno come annuncia l’autorevole al-Khoei, le religioni potrebbero rianimare una politica fallita ovunque da 40 anni, nel sangue di troppi.

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