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Chi fa figli vada prima in pensione? Mastrapasqua smonta l’idea di Cottarelli

Difficile pensare che a 30 anni si facciano figli per avere un “vantaggio” trent’anni dopo: l’aiuto per i figli serve subito, non può essere postdatato. Dietro c’è la diffusa idea distorta secondo cui le risorse accumulate nel sistema previdenziale si possono recuperare quando si crede che ci siano altri più impellenti bisogni

Il sistema a ripartizione regola la previdenza italiana, di primo pilastro. Un sistema che garantisce quell’approccio solidaristico che qualifica gran parte delle Istituzioni che governano la nostra convivenza civile. In buona sostanza vuol dire che la pensione viene pagata con i contributi incassati dai lavoratori attivi, in una circolarità che è premessa di un vero patto generazionale. Ci sono alcune condizioni perché il sistema regga: innanzitutto serve che ci siano il lavoro e i lavoratori. Poi serve che il sistema economico complessivo mantenga un discreto tasso di sviluppo: occorre che il capitale incassato tramite i contributi venga rivalutato, e ciò è possibile solo se il Pil del Paese cresce. L’equilibrio complesso prevede ovviamente molte variabili, dall’equilibrio demografico all’evoluzione delle retribuzioni.

Di certo la pensione – in qualche modo una forma di salario differito nel tempo, erogato quando viene meno la capacità di lavorare – non potrà mai essere considerata un ammortizzatore sociale. Dovrebbe essere percepita come un bene indisponibile, poiché già destinato a un uso specifico. Invece il prepensionamento, per esempio, è stato a lungo – e ancora oggi – uno strumento di politica passiva del lavoro, al pari della cassa integrazione. E questo ha favorito una distorsione culturale prima che sociale.

In Italia – complice l’incessante crescita economica del Paese, almeno dagli anni del dopoguerra fino alla metà degli anni Novanta – si è creduto che il capitale accumulato dalla contribuzione obbligatoria, invece che essere assicurato per le prestazioni future, potesse essere erogato per una più larga redistribuzione. È breve il passo che va dalla follia delle baby-pensioni a quella voglia di tamponare gli effetti di ogni intervento di riforma con scalini e scaloni, salvaguardie, elenchi astrusi di lavori usuranti (qual è il lavoro che poco o tanto non provoca usura fisica o psicologica?).

Tutto questo ha finito per minare l’elemento fondamentale dalla solidarietà: la fiducia. La rincorsa alla tutela di alcune parti del corpo sociale – dalle crisi aziendali alla salvaguardia di alcuni lavoratori che venivano più esposti agli atti di riforma – ha finito per riprodurre nel tempo un fraintendimento sostanziale. Il capitale accumulato dal sistema previdenziale dovrebbe restare nel suo perimetro, con spirito solidaristico in senso generazionale. Ogni fuoriuscita di risorse crea una sperequazione, una preferenza di qualcuno rispetto ad altri.

Le baby pensioni sono solo più clamorose (costano ancora 4 miliardi l’anno, più o meno) delle soluzioni di quota 100. Ma il problema è analogo. La pensione dovrebbe essere un’occasione di solidarietà intergenerazionale, non un tesoretto da saccheggiare anche per i migliori fini. Si finisce sempre per strappare la tela su cui poggiano i piedi delle generazioni future e spesso anche di quelle presenti, con la sola colpa di essere più giovani.

E non c’è colla che tenga. Sono strappi che non si compongono con la coccoina. Non basta promettere un’uscita anticipata dal lavoro in cambio della “produzione” di più figli per assicurare più lavoratori in futuro. L’idea avanzata da Carlo Cottarelli (un premio previdenziale ai lavoratori più prolifici) oltre che improponibile (difficile pensare che a 30 anni si facciano figli per avere un “vantaggio” trent’anni dopo: l’aiuto per i figli serve subito, non può essere postdatato) ripropone questa idea distorta: le risorse accumulate nel sistema previdenziale si possono recuperare quando si crede che ci siano altri più impellenti bisogni.

Il rischio è che si faccia una (involontaria?) campagna per il sistema a capitalizzazione, che vale in Italia per la previdenza complementare, con buone ragioni, ma che la cultura della sussidiarietà sconsiglia al primo pilastro. Sarebbe utile almeno rifletterci in questa nuova stagione di “riforma delle pensioni” successiva alla fine della famigerata quota 100.


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