È auspicabile un sussulto di senso di responsabilità da chi è chiamato alla scelta del nuovo Presidente della Repubblica. Superare incomprensioni e intercessi di parte stavolta non solo è opportuno ma diventa fondamentale. La rubrica di Carlo Fusi
Meglio dirlo subito: pecca di ingenuità o di scarsa comprensione della realtà chi immagina che l’elezione del nuovo Capo dello Stato avvenga in un clima di concordia e di unitarietà. Il quadro politico è quanto mai sfilacciato, l’Italia vive una crisi di sistema – dice niente l’astensionismo alle amministrative? – che coinvolge settori decisivi del Paese, la coesione nazionale decresce mentre s’avanzano fenomeni di ribellismo di tipo anarcoide che provocano grande inquietudine. Immaginare che i Grandi Elettori possano scegliere quasi in una bolla di autoreferenzialità senza portare dentro le aule parlamentari le ansie e i dubbi dei cittadini, è insensato. Del resto l’arrivo di Mario Draghi a palazzo Chigi è esattamente la conseguenza di un fallimento generale sul fronte della governabilità e dell’equilibrio politico-istituzionale.
Tuttavia su questo sfondo si stagliano anche altri elementi che non possono essere sottovalutati. Come detto, alla guida del governo c’è una personalità di fortissimo spessore, autorevolezza, competenza. L’Italia ha ottenuto dalla Ue fondi in misura maggiore di tutti gli altri Paesi membri e può sfruttare una occasione irripetibile per rilanciarsi e avvisare riforme tali da far compiere un salto di qualità formidabile. Alcuni degli indicatori più importanti segnalano un rimbalzo corposo è superiore alle aspettative dell’economia: rimbalzo che deve essere certamente radicato ma che allo stesso tempo offre stimoli positivi da cogliere senza indugi. I giudizi delle agenzie di rating, mai troppo benevoli con Roma, hanno cambiato segno. Per ultimo, ma non certo d’importanza, il Paese ha riacquistato una dimensione e uno spetto d’azione più consoni al suo ruolo e alla sua storia in ambito continentale. La fiducia è risalita: ed è il segno più importante.
La partita del Quirinale mette in gioco tutti questi fatti, quelli negativi e quelli di maggiore auspicio. Pur nel mezzo di difficoltà palesi e guerriglie mai sopite, la maggioranza di strambe e larghe intese in nove mesi ha dimostrato di poter navigare senza sbandamenti sotto la guida di un timoniere d’eccezione con l’ago della bussola orientato verso la crescita e lo sviluppo. Sappiamo tutti che si tratta di una bonaccia destinata a trasformarsi in uragano all’inizio del prossimo anno. Le avvisaglie ci sono, comprese quelle di chi – detto brutalmente – vuole imputare a Draghi la colpa di aver messo in un cantuccio le forze politiche e di agre sostanzialmente da solo. I continui bracci di ferro di queste ore, senza tralasciare quello con i sindacati sulle pensioni, rappresentano altrettanti segnali che destano preoccupazione ma che sarebbe fuorviante minimizzare o, peggio, ignorare.
Per provare ad eleggere un Presidente della Repubblica non “per caso” o purchessia ma bensì adatto alle sfide che l’Italia ha davanti a sé è fin troppo evidente che serve una regia, ossia un accordo tra i principali partiti per definire il profilo del candidato più giusto nonché di maggiore spessore. Può apparire fantapolitica, ma proviamo a considerare per un attimo lo scenario opposto. Un capo dello Stato eletto nel mezzo di uno scontro belluino tra centrodestra e centrosinistra, sul filo dei voti necessari, non solo rappresenterebbe un colpo di maglio sul percorso di recupero che faticosamente stiamo percorrendo, ma soprattutto minerebbe la fiducia degli italiani nell’unica magistratura istituzionale che ancora è circondata da rispetto e considerazione. Per non parlare delle possibili ripercussioni sui mercati e nei rapporti col resto dell’Europa.
Per questo è auspicabile un sussulto di senso di responsabilità da chi è chiamato alla scelta. Superare incomprensioni e intercessi di parte stavolta non solo è opportuno ma diventa fondamentale. Le premesse, lo vediamo, non sono positive. Ambedue gli schieramenti sono alla ricerca di candidati di bandiera che sono veleno per accordi bipartisan o di largo spettro. Bisogna rovesciare lo schema: prioritario è consolidare le condizioni politiche necessarie per un sentiero comune, e poi lavorare sul candidato che meglio corrisponde a queste esigenze. Ben sapendo che in caso contrario l’equilibrio complessivo del Paese subirebbe un colpo forse decisivo. E rinfocolerebbe i pericoli di default.