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Il clima è questione di intelligence. Pressing americano su Cop26

Tre rapporti in un giorno pubblicati dall’amministrazione Biden identificano il clima come nuovo campo di battaglia. Quello dell’intelligence avverte che gli impegni per contenere l’aumento delle temperature sono “insufficienti” e mette in guardia dalla Cina sulle materie prime. Appuntamento a Glasgow

Lo spiegava quasi un anno fa Joshua Busby, professore associato dell’Università del Texas e membro a vita del Council on Foreign Relations, esperto di sicurezza climatica, rispondendo ad alcune domande di Formiche.net: “Da oltre un decennio ci siamo resi conto che il cambiamento climatico minaccia la sicurezza nazionale. In particolare, rappresenta una minaccia per asset importanti come le basi militari situate nelle zone di costa bassa”, spiega. Senza dimenticare che “i rischi per la sicurezza si estendono a livello internazionale poiché gli impatti dei cambiamenti climatici su altri Paesi sono potenzialmente destabilizzanti”. Ecco perché, continuava, la scelta da parte del presidente statunitense Joe Biden di John Kerry come inviato presidenziale per il clima “rappresenta l’innalzamento della questione climatica al livello più alto delle preoccupazioni politiche”.

A una decina di giorni dall’inizio dei lavori della Cop26 a Glasgow (a cui non saranno presenti i leader cinese Xi Jinping, quello russo Vladimir Putin e quello indiano Narendra Modi), l’intelligence statunitense conferma questa tendenza con un rapporto intitolato “Climate Change and International Responses Increasing Challenges to US National Security Through 2040”, ordinato dal presidente Biden a gennaio e prodotto dall’Ufficio del direttore dell’intelligence nazionale.

Da sottolineare il fatto che il documento sia stata pubblicato nello stesso giorno in cui ne sono stati resi noti altri due: uno della Casa Bianca, dedicato agli effetti del cambiamento climatico sulle migrazioni con rischi di “instabilità politica e conflitti” e seguito dell’annuncio da parte dell’amministrazione Biden della nascita di un gruppo di lavoro interagenzia per mitigare gli impatti del cambiamento climatico su questo specifico aspetto; l’altro del Pentagono, che spiega che i cosiddetti malign actor “possono cercare di sfruttare l’instabilità regionale alimentata dagli impatti del cambiamento climatico per ottenere influenza o per un vantaggio politico o militare”.

“Il cambiamento climatico accentuerà sempre più i rischi per gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, man mano che gli impatti fisici aumentano e le tensioni geopolitiche aumentano su come rispondere a questa sfida”, si legge nel documento dell’intelligence. In particolare, “l’intensificarsi degli effetti fisici esacerberà i punti critici geopolitici, in particolare dopo il 2030, e i Paesi e le regioni chiave dovranno affrontare rischi crescenti di instabilità e necessità di assistenza umanitaria”.

Su chi ricadranno i costi della transizione energetica? Chi vincerà la battaglia dell’Artico? Sono soltanto due esempi degli interrogativi che preoccupano i servizi segreti americani.

Attualmente, prosegue l’intelligence statunitense inquadrando il nuovo campo di battaglia, “lo slancio globale sta crescendo per riduzioni più ambiziose delle emissioni di gas serra, ma le attuali politiche e impegni sono insufficienti per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi”. Tradotto: i Paesi del mondo non riusciranno a rispettare i loro impegni di limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5 °C. Quella soglia sarà superata già “intorno al 2030”, prevedono gli 007. Invece, nel 2050, anno fissato da diversi Stati occidentali per raggiungere net zero, si raggiungerà un aumento di 2 °C.

Ci sono due regioni di particolare interesse per l’intelligence: le isole del Pacifico e l’Africa centrale, particolarmente vulnerabili agli effetti dell’aumento delle temperature. Sotto lo stesso riflettore altri 11 Paesi: Guatemala, Honduras, Nicaragua, Colombia, Haiti, Corea del Nord, Iraq, Afghanistan, Pakistan, India e Myanmar. Mentre questi chiederanno aiuto, i governi di Paesi come quelli mediorientali e la Russia, sui cui bilanci pesano molto le esportazioni di combustibili fossili, “continueranno a resistere a una rapida transizione verso un mondo a zero carbonio perché temono i costi economici, politici e geopolitici di farlo”, dice il rapporto. A leggere questi passaggi sembra che l’intelligence statunitense non creda né all’impegno russo a net zero nel 2060 né alle recenti aperture del presidente Putin che al forum di Valdai ha annoverato il cambiamento climatico tra le principali sfide globali per l’umanità.

Non poteva mancare nel rapporto dell’intelligence la Cina, leader mondiale delle emissioni di carbonio. Sottolineando la “posizione forte” nella competizione globale (destinata a crescere) per quanto riguarda l’accesso ai minerali e alle tecnologie necessarie per produrre energia rinnovabile. La Cina “è il principale fornitore al mondo di componenti” per sistemi come “trasformatori, interruttori e invertitori”, si legge. Poi, però, un avvertimento anche ad alleati e partner: “Secondo noi creano rischi di vulnerabilità cibernetica”.

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