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Consigli per riformare il Reddito di cittadinanza. Scrive il prof. Zecchini

Ogni soluzione dovrebbe essere parte integrante della riforma degli ammortizzatori sociali e dell’assistenza. Abbandoniamo la denominazione “reddito di cittadinanza”, che evoca l’idea, allettante ma perniciosa, che basti essere un cittadino per assicurarsi un reddito senza far nulla. Così si genera sia risentimento in chi fatica ogni giorno al lavoro, sia sottosviluppo economico

Nel Documento di Bilancio, che preannuncia l’imminente legge di Bilancio, il governo ha deciso un ulteriore finanziamento di 1 miliardo in aggiunta ai 7,8 miliardi già previsti per l’erogazione del Reddito di Cittadinanza (RdC) nel 2022, ponendo le premesse per la stabilizzazione di questa misura negli anni futuri.

Il nuovo stanziamento mostra che non si tiene conto dei vari difetti ed abusi che essa ha evidenziato nei suoi due anni e mezzo di vita, né la si raccorda con il complesso dei meccanismi esistenti che compongono il sistema del welfare pubblico a favore dei meno abbienti. Mentre si continua ad ampliare il finanziamento di un intervento inadeguato, apportando minori aggiustamenti, si alloca un ammontare di fondi pubblici di molto inferiore per realizzare quella riforma degli ammortizzatori sociali, da molti anni invocata, che dovrebbe mettere ordine tra i diversi mezzi di assistenza sociale, orientarli meglio sui veri bisognosi di supporto e migliorarne l’efficienza di gestione.

L’inadeguatezza del RdC origina essenzialmente dalla sua finalità ambigua, in quanto è stato introdotto e disegnato come un’azione di contrasto alla povertà e al tempo stesso diretta a facilitare l’avvio al lavoro di quanti non hanno o hanno perduto un’occupazione. Come sanno bene gli esperti, è ben difficile perseguire con uno stesso strumento due obiettivi in gran parte indipendenti, che mirano a due diverse tipologie di destinatari. Il rischio principale è di dover fare compromessi sia nella sua articolazione, sia nell’ampiezza per rimanere entro i limiti delle risorse disponibili per lo scopo, col risultato di mancare entrambi i bersagli.

Se lo si considera come misura contro la povertà e di rigenerazione sociale, è necessario concentrarla su quanti sono effettivamente bisognosi di un sostegno, perché non sono in grado di procurarsi i mezzi per raggiungere un livello di sussistenza sufficiente per sé e la propria famiglia. In questa prospettiva, il nodo cardine è individuare questo livello, che deve fondarsi su una valutazione dei consumi di beni e servizi indispensabili per l’individuo, se unico componente del nucleo familiare, o per i membri di una famiglia, sempre nel contesto di una società evoluta come quella italiana.

Nella realtà, l’assegnazione del RdC si richiama a indicatori approssimativi, che sono composti, oltre che dalla residenza nel Paese, dal livello dell’Insee (che deve essere inferiore a € 9360 con aggiustamenti mediante scale di equivalenza per la situazione familiare) e dalla consistenza patrimoniale.

Ne è derivato che un’elevata parte dei bisognosi non è stata raggiunta da questa misura. Secondo alcuni esperti, soltanto un quinto dei “poveri relativi”, individuati in rapporto a un reddito (o spesa per consumi) di riferimento, ha beneficiato del sostegno, mentre secondo altre stime, lo ha ottenuto il 44% circa dei “poveri in assoluto”, ovvero con redditi inferiori al minimo di spesa in un dato periodo. In breve, una fetta consistente di individui meritevoli di sostegno non sono stati aiutati e rimangono, quindi, in fondo alla scala dei redditi. In particolare, le famiglie numerose avrebbero meritato un maggior supporto rispetto alle altre, e lo stesso si può dire di quelle nelle Regioni settentrionali, in cui il costo della vita è più alto che nel meridione, e quindi hanno ricevuto relativamente meno in termini di potere di acquisto, dato l’importo indifferenziato tra Regioni.

La valutazione della condizione di povertà presenta in ogni caso notevoli problemi dovuti ai parametri che si adottano e al modo in cui sono condotte le rilevazioni. Ad esempio, gli indici di povertà, calcolati dall’Istat per il biennio della pandemia, danno segnali contrastanti: quello di povertà “assoluta” è aumentato, mentre quello “relativo” è diminuito. L’incidenza di popolazione che è considerata povera in “assoluto” è salita al 9,4% (7,7% nel 2019), e quella in povertà “relativa è scesa al 13,5% dal 14,7%. Se non si rileva un peggioramento più profondo, lo si deve sia al metodo di misurazione, che ha visto scendere il livello soglia di povertà relativa, sia all’insieme di altri aiuti, in aggiunta al RdC, che sono stati erogati per assistere uno spettro di popolazione più ampio di quello considerato per il RdC.

Indubbiamente è difficile trovare la misurazione più rispondente all’obiettivo perseguito, ma si può migliorare la mira puntando a coloro che mostrano evidenti segni di disagio economico, ovvero guardando a ciascun componente della famiglia, e non all’insieme familiare, e considerando diversi indicatori, quali la presenza di minori, l’età, il luogo di residenza, la consistenza patrimoniale, la disponibilità o meno di alloggio proprio, la cittadinanza ed altro. A seconda dei criteri seguiti si ottengono stime dell’incidenza dei poveri ben diverse numericamente, benché grosso modo convergenti nell’approssimarsi al fenomeno. Ad esempio, come mostra uno studio appena uscito della Banca d’Italia (Brandolini, QEF ottobre 2021), la stima dell’incidenza del disagio economico nel 2014 variava dal 6,8% al 22,3% a seconda dei parametri assunti.

I risultati della ricerca statistica si intrecciano con le esigenze della politica, conducendo i governanti a scelte che non possono che caratterizzarsi per un certo grado di arbitrarietà nell’adozione di un determinato criterio per definire la soglia di povertà di riferimento e la platea dei soggetti da beneficiare. Nello stabilire i confini di eleggibilità per il RdC è intervenuto, in particolare, un compromesso tra i due obiettivi, contrasto della povertà e avvio al lavoro. Anche sotto quest’ultimo profilo, tuttavia, la misura si rivela un parziale fallimento, in quanto solo una frazione minoritaria dei beneficiari ha accettato un lavoro.

Al 30 giugno scorso, l’Anpal certifica che su circa 3 milioni di persone coperte dal RdC, 1.150.152 erano tenuti a sottoscrivere il Patto per il lavoro, ovvero circa il 38%. Tra questi ultimi è ancora più bassa (34,1%) la quota di quanti hanno effettivamente sottoscritto il Patto, oppure sono già in un patto di servizio. La stessa quota è inferiore a quella di quanti avevano un rapporto di lavoro prima di accedere al RdC (37,8%) e lascerebbe presumere che un 3,7% non intende avvalersi dei servizi del Centro per il lavoro. Pertanto, la maggioranza dei beneficiari non è incanalata verso l’occupazione, ma riceve l’aiuto come una forma di pura assistenza.

In questi comportamenti va tenuto conto che il meccanismo della misura contiene implicitamente un disincentivo parziale ad accettare un lavoro che non compensi più che adeguatamente la conseguente perdita del RdC. In breve, fino a un reddito da lavoro di circa 12mila euro, la posizione reddituale del beneficiario che accetti un lavoro non migliorerebbe rispetto allo status quo perché nello stesso tempo subirebbe la perdita in misura proporzionale del contributo pubblico. In altri termini, uno degli effetti collaterali del RdC consiste nell’innalzare il cosiddetto salario di riserva, che non può non ripercuotersi sull’occupazione e sulla dinamica salariale.

Sotto un altro profilo, allo scarso successo nell’avviare al lavoro contribuisce la scarsa occupabilità degli assistiti da politiche sociali. La loro scarsa formazione e le difficoltà personali o inerenti alle loro responsabilità familiari limitano fortemente le possibilità di ottenere un impiego compatibile con le loro caratteristiche ed esigenze. Eppure, l’Italia registra una quota di occupati assistiti (29%) superiore alla media europea e di diversi Paesi più sviluppati.

Il RdC è considerato dal decisore politico anche come uno dei mezzi per accorciare le distanze tra classi di percettori di reddito, ovvero uno strumento di redistribuzione dei redditi per ridurre le diseguaglianze tra gruppi sociali. Anche in questo campo la stima degli effetti ridistributivi sul reddito primario e su quello disponibile si presta a diversi metodi di analisi e di interpretazione dei risultati. L’Istat sulla base di un modello di microsimulazione, chiamato FaMiMod, stima che il RdC abbia concorso a sostenere i redditi familiari dei più vulnerabili e a restringere le disparità tra famiglie.

Riferendosi a un ipotetico scenario in assenza di misure di sostegno, stima che nel 2020 l’insieme degli interventi attraverso la Cassa Integrazione Guadagni e il RdC abbia contribuito ad abbassare l’indice di concentrazione di Gini di 1,2 punti percentuali (a 30,6) ed il rischio di povertà di 0,8%, portando al 19,1% la quota di appartenenti a famiglie che si collocano al 60% del reddito mediano. Una stima distinta per il RdC non è stata resa pubblica, ma si sa che l’impegno finanziario per la cig è stato più ampio di quello per il RdC.

A queste stime della distribuzione dei redditi sfuggono, tuttavia, alcuni aspetti che incidono sul livello effettivo di reddito disponibile e alterano il valore delle statistiche ufficiali sulla sua distribuzione. È noto che nel Paese è diffuso il lavoro “in nero” che non viene conteggiato adeguatamente nelle indagini campionarie sulle famiglie, né nei conti del fisco. Inoltre, le famiglie più bisognose beneficiano, possibilmente più intensamente di famiglie facoltose, di una gamma di servizi e aiuti pubblici il cui valore non è quantificato, comprendenti sanità, istruzione, alloggio sociale, assistenza agli anziani, trasporti pubblici, tariffe delle utilities e altro. Si aggiunga che una quota dei beneficiari ha ottenuto illecitamente il RdC, come rilevano i vari organi di controllo ex-post.

Nondimeno, è innegabile che durante la crisi pandemica questo strumento ha svolto insieme ad altri un ruolo di ammortizzatore sociale. L’esigenza principale per il buon governo delle risorse pubbliche è, quindi, correggere il meccanismo ed integrarlo in maniera appropriata nel sistema del welfare. Le alternative possibili sono diverse, ma non dovrebbero limitarsi a correzioni al margine che lasciano indenni i difetti attuali.

Un’opzione consiste nell’indirizzare lo strumento esclusivamente all’aiuto dei più bisognosi, individuandoli e commisurando l’importo attraverso diversi parametri, per esempio distinguendo per ampiezza delle famiglie, dei loro mezzi, delle capacità di reddito, del numero dei minori, dell’area di residenza e dell’insieme di altri aiuti che ricevono. Un’altra opzione potrebbe essere di sdoppiare lo strumento in due rami distinti per obiettivi e per criteri applicativi. Uno sarebbe un vero aiuto ai meno abbienti e l’altro un efficiente incentivo per l’avvio al lavoro. In ogni soluzione alternativa dovrebbe prevalere l’esigenza di integrare lo strumento con coerenza nel quadro del sistema di welfare, evitando sovrapposizioni e vuoti d’intervento.

Più concretamente, ogni soluzione dovrebbe essere parte integrante della riforma degli ammortizzatori sociali e dell’assistenza, riforma che è attesa da tempo e sempre rimandata o parziale. Sarebbe anche opportuno abbandonare la denominazione di “reddito di cittadinanza”, che evoca l’idea, allettante ma perniciosa, che basti essere un cittadino per assicurarsi un reddito senza far nulla. Così si genera sia risentimento in chi fatica ogni giorno al lavoro, sia sottosviluppo economico. Ma si vedrà mai una seria riforma del welfare?

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