È in libreria la nuova edizione, dopo quasi mezzo secolo dalla prima, di “Sorel, il nostro maestro”, del saggista francese Pierre Andreu (Oaks editrice, pp. 295, € 25,00). Qui di seguito pubblichiamo stralci dell’introduzione di Gennaro Malgieri
Pierre Andreu è uno dei grandi dimenticati della cultura politica del Novecento. Eppure a lui si devono importanti studi su Max Jacob, su Drieu La Rochelle e soprattutto su Georges Sorel. Il vuoto di memoria è dovuto al pregiudizio nei suoi confronti, animato soprattutto dagli intellettuali della sinistra francese nel dopoguerra che non gli perdonarono l’amicizia con il filosofo cattolico Emmanuel Mounier e l’ex-ministro di Vichy Paul Marion. Ma fu soprattutto la sua “revisione” del pensiero di Sorel, da lui definito, nel saggio che riproponiamo, “Nostro Maestro”, che alimentò il risentimento nei suoi confronti da parte della gauche.
Indubbiamente Sorel fu un grande Maestro del pensiero: lo testimonia l’opera di smantellamento da lui appassionatamente portata a compimento della teorica marxista, fornendo in tal modo al nascente sindacalismo rivoluzionario le armi per opporsi allo sfruttamento del proletariato nell’ambito della più vasta crisi della civiltà nella quale era inevitabilmente coinvolto anche esso, come la borghesia del resto. Classi sociali vittime del progresso, responsabile della decadenza morale e sociale che Sorel denunciò in un libretto tanto esile quanto efficace e affascinante: Le illusioni del progresso, appunto.
Giornalista, saggista, biografo e poeta, Pierre Andreu nacque il 12 luglio 1909 a Carcassonne, nel dipartimento di Aude in Occitania. Fin da studente fu soggiogato dalla lettura delle opere di Charles Péguy, Pierre-Joseph Proudhon, Georges Sorel appunto del quale, pur nella enorme differenza di età divenne amico. E non è un caso, ma vera gratitudine che questo libro, dedicato all’amico-maestro, si apra con queste parole: “Conobbi Sorel nella bottega di Péguy. A cinquant’anni, con la barba bianca, sembrava un vecchio in quel luogo che misurava appena dodici metri quadrati e dove nessuno toccava i trent’anni”. Si stabilì tra il vecchio ed il giovane un’intensa intesa che sarebbe sfociata nei libri che l’allievo anni dopo avrebbe dedicato al pensatore, oltre che nelle conseguenti scelte intellettuali e politiche lo portarono, in apparenza contraddittoriamente, vicino a Mounier e alla sua rivista cattolica “Esprit” ed all’anarco-fascista Drieu La Rochelle. Alla fine degli anni ’30 Andreu si definiva fascista. E nonostante questa scelta impegnativa rimase vicino a Max Jacob del quale ammirava la poesia è la pittura, oltre la dirittura morale: antinazista, morì in un lager.
Andreu ebbe sorte migliore alla fine della guerra: fu fatto prigioniero e scontata la pena diede vita a numerose attività culturali ed editoriali tra le quali il giornale Accent grave (revue de l’Occident), lanciato nel 1963 insieme con Paul Sérant, Michel Déon, Roland Laudenbach e Philippe Héduy alcuni dei migliori esponenti del pensiero conservatore francese del tempo. La rivista si ispirava alle idee di Charles Maurras ed il suo punto focale era la crisi della civiltà occidentale.
Andreu fu poi direttore dell’ufficio ORTF di Beirut dal 1966 al 1970, dove entró in contatto con intellettuali arabi e palestinesi e divenne poi direttore del canale radiofonico France Culture.
Nel 1982 ottenne dall’Académie francaise il Prix de l’essai per il suo Vie et mort de Max Jacob. Negli ultimi anni della sua vita Andreu sostenne Francois Mitterrand, senza dimenticare il suo antico maestro, tanto da assumere la condirezione dei Cahiers Georges Sorel.
Pierre Andreu morì il 25 marzo 1987 all’età di 77 anni, da ecologista e pacifista, testimoniando fino alla fine la sua stupefacente irregolarità intellettuale pur nella coerenza di un pensiero ispirato alla lotta alla decadenza.
Tra le sue opere più significative ricordo Drieu, témoin et visionnaire, con prefazione di Daniel Halévy; Histoire des prêtres ouvriers; il già citato saggio Max Jacob; Les Réfugiés arabes de Palestine; Le Rouge et le Blanc: 1928-1944 (memorie); con Frédéric Grover (1979), Drieu La Rochelle; Georges Sorel entre le noir et le rouge; Poèmes; Révoltes de l’esprit: les revues del année ‘30.
Sorel il nostro maestro è decisivo nella interpretazione delle idee dell’ideologo francese. Lo è al punto che Andreu ne fa una sorta di “profeta” del declino ricostruendo la sua critica profonda operata sulle conseguenze dell’illuminismo, degli esiti della Rivoluzione francese e dunque del prodotto più maturo dei due eventi, intellettuale e politico, che mutarono la storia del pensiero europeo: il marxismo. È tra il 1897-1898 che Sorel acquisisce la consapevolezza della inanità del socialismo marxista nel mutare i destini delle classi più umili e nello stesso tempo forgiare una società nuova. Quando scoppia la crisi del partito socialista, grazie alle spietate critiche di Bernstein e di Lagardelle, Sorel si schiera senza esitazioni con i riformatori e attacca il marxismo asserendo che “non è una religione rivelata”. Andreu aggiunge che nello stesso tempo il Maestro fa la grande scoperta della sua vita: il sindacalismo nel quale scorge l’avvenire del socialismo. Il sindacalismo consiste, sostanzialmente, nell’azione operaia autonoma. Dunque, non più i partiti, le associazioni affiliate alle greppie politiche, il parlamentarismo come elemento di acquisizione di poteri impropri avrebbero potuto smuovere un mondo imbalsamato dalla Grande Rivoluzione. Niente di tutto questo. Sono gli operai che devono, magari con la violenza, appropriarsi del loro destino che coincide con quello della nazione.
Sorel, pur rimanendo paradossalmente marxista, crede, scrive Andreu, che la messa in discussione del marxismo reclamata dai revisionisti all’inizio del Novecento per salvare tutto ciò che il marxismo aveva portato nella filosofia e nell’investigazione economica, sia stata realizzata dai sindacalisti rivoluzionari nella pratica dell’azione operaia.(…).
Dobbiamo a Benedetto Croce l’introduzione in Italia del pensiero e dell’opera di Sorel. Per quanto distante sul piano teorico e della prassi politica dall’ideologo francese, il filosofo italiano ne colse la “vicinanza” sia per quanto concerneva la sua critica al marxismo che per la dirittura morale esemplificata in una vita concentrata nello studio e nella comprensione della modernità – diremmo oggi – senza lasciarsi trascinare dalle mode e dalle utopie in voga all’epoca. Sicché l’opera maggiore di Sorel, le Réflexions sur la violence (1906), grazie a Croce potè apparire in Italia ed influenzare decisamente gli insofferenti del marxismo scolastico, a cominciare dai sindacalisti rivoluzionari dei quali divenne il “mito” assoluto, mentre anche Lenin e Mussolini si abbeveravano alla sua dottrina.
Sorel riconosceva che mentre per Marx il socialismo era “una filosofia della storia delle istituzioni contemporanee”, a lui gli appariva come “una filosofia morale” e “una metafisica dei costumi”, ma anche “un’opera grave, temibile, eroica, il più alto ideale morale che l’uomo abbia mai concepito, una causa che si identifica con la rigenerazione del mondo”. I socialisti, dunque, non avrebbero dovuto formulare teorie, costruire utopie più o meno attraenti, poiché “la loro unica funzione consiste nell’occuparsi del proletariato per spiegare ad esso la grandezza dell’azione rivoluzionaria che gli compete”.
“Il socialismo – sosteneva – è diventato una preparazione delle masse impiegate nella grande industria, le quali vogliono sopprimere lo Stato e la proprietà; ormai non si cercherà più il modo in cui gli uomini si adatteranno alla nuova e futura felicità: tutto si riduce alla scuola rivoluzionaria del proletariato, temprato dalle sue dolorose e caustiche esperienze”. Il marxismo, dunque, altro non era per Marx che una “filosofia delle braccia”, mentre il suo destino “ tende sempre più a configurarsi come una teoria del sindacalismo rivoluzionario – o meglio come una filosofia della storia moderna nella misura in cui quest’ultima subisca il fascino del sindacalismo. Risulta da questi dati incontestabili che, per ragionare seriamente del socialismo, bisogna prima di tutto preoccuparsi di definire l’azione che compete alla violenza nei rapporti sociali di oggi”.
Ecco: fu la suggestione di una teorica della storia moderna ad avvicinare Croce a Sorel al quale riconosceva che “a ragione dell’indeterminatezza che c’è nel pensiero del Marx circa l’organizzazione del proletariato, le idee di governo e di espediente si siano insinuate nel marxismo, e negli ultimi anni si sia a questo modo compiuto un vero tradimento allo spirito stesso, sostituendo ai suoi principi genuini “un miscuglio di idee lassalliane e di appetiti democratici…”. Tutti i consigli che il Sorel rivolge agli operai, li compendia in tre capi, ossia: circa la democrazia, di non correre dietro all’acquisto di molti seggi legislativi, che si ottengono col far causa comune coi malcontenti di ogni sorta; di non presentarsi mai come il partito dei poveri, ma come quello dei lavoratori; di non mescolare il proletariato operaio con gli impiegati dalle amministrazioni pubbliche, e di non mirare a estendere il demanio dello Stato; – circa il capitalismo di respingere ogni provvedimento, favorevole che sembri per il momenti agli operai, se porti a infiacchire l’attività sociale; – circa al conciliatorismo e alla filantropia, di ricusare qualsiasi istituzione, che tenda a ridurre la lotta di classe a rivalità di interessi materiali; ricusare la partecipazione di delegati operai alle istituzioni create dallo Stato e dalla borghesia; rinchiudersi nei sindacati, ossia nelle Camere di Lavoro, e raccogliere intorno ad esse tutta la vita operaia”.
La moralità rivoluzionaria – che superava il marxismo – era tutta qui, per come Croce la sintetizzò nelle Conversazioni critiche (…).
Sorel nutriva e manifestava grandi ambizioni che avrebbe trasfuso nel suo insegnamento dottrinario: combattere l’indifferenza in materia di morale e di diritto, lottare contro l’utilitarismo, iniziare il popolo alla vita eroica. “Saremmo felici – scriveva nel 1907 nel Procés de Socrate – se arrivassimo ad accendere in qualche animo il sacro fuoco degli studi filosofici e a convincere qualcuno dei pericoli che corre la nostra civiltà a causa dell’indifferenza in materia di morale e di diritto”.
Insomma, soltanto un movimento operaio eroico e puro, secondo Sorel, può impedire che il mondo scivoli verso la decadenza, come osservò Andreu, “allontanando ogni influsso democratico e borghese (parlamentari, funzionari, avvocati, giornalisti, ricchi benevoli), respingendo ogni concetto di compromesso con i padroni e assicurandosi piena autonomia di azione”.
Sorel era diventato un conservatore. Lo spettacolo francese ed europeo lo deprimeva. Non vedeva più nessuno. Pochi erano gli amici con i quali scambiava qualche lettera, a cui confidava la propria amarezza. I nuovi rivoluzionari non erano degni della sua lezione nonostante, almeno in Italia, continuassero a venerarlo. Scriveva a poche persone: a Benedetto Croce e a Mario Missiroli che accompagnavano verso la fine “l’ultimo Sorel”. Missiroli pubblicava i suoi articoli sul “Resto del Carlino” (poi li riunì in due volumi: L’Europa sotto la tormenta e Da Proudhon a Lenin). Solo, malandato e povero si spense il 27 agosto 1922. La sua camera ardente, raccontò Daniel Halévy, era spoglia, la bara coperta da un drappo nero, senza una croce, era posata su un semplice treppiedi, nessuno lo vegliava, una fiamma si consumava lentamente.
L’uomo che aveva incendiato l’Europa non ebbe neppure il cordoglio di chi tutto gli doveva. E lasciava una delle opere più imponenti, dalle Riflessioni sulla violenza a Le illusioni del progresso e Le rovine del mondo antico: un patrimonio al quale non si finirà mai di attingere cercando le ragioni della decadenza di un mondo e le delusioni di rivoluzioni che hanno prodotto mostruosità infinite.