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E se 10 anni fa Gheddafi non fosse stato ucciso? Risponde Varvelli (Ecfr)

Controstoria libica con Varvelli (Ecfr): se il Paese fosse rimasto in mano al rais forse sarebbe un regime ibrido, guidato de facto dal figlio Saif al Islam. Riuscirà la Libia a trovare il suo ordine? Il voto serve per stabilizzare una situazione positiva, ma in tanti non vogliono fare passi indietro

Quando è stato trovato dalle milizie ribelli del Consiglio nazionale di transizione era nascosto in un canale di scolo, in fuga in quella che era la sua città natale e roccaforte del potere; le immagini del suo volto spaventato, martoriato, hanno fatto il giro del mondo. Il 20 ottobre del 2011 Muammar Gheddafi, il rais libico, veniva ucciso dalle forze delle rivoluzione – probabilmente per i colpi ricevuti alla testa e all’addome. L’iconografia del suo potere passa anche da quel momento, diffuso dai media internazionali e considerato da associazioni come Amnesty International e Human Rights Watch un abuso dei diritti umani (chiesero anche un’autopsia, ma sulla sua fine c’è una cortina fumogena). “Che vi ho fatto?” pare che chiese a chi lo scovò nascosto tra le fogne; pregava, supplicava di lasciarlo in vita. Un momento che segnato la storia della Libia.

A dieci anni di distanza, Formiche.net ha chiesto ad Arturo Varvelli, direttore dell’ufficio di Roma dell’Ecfr, di fare una sorta di sliding doors: come sarebbe la Libia se fosse rimasto al potere? L’ultimo decennio libico è stato travagliato, guerre interne e il peso degli scontri per procura giocati da diversi attori regionali hanno messo in ginocchio un paese. La situazione non pare troppo avanzata rispetto a quella sotto la dittatura. “Il regime di Gheddafi non stava certo brillando per liberalismo e rispetto dei diritti – spiega Varvelli – ma se dobbiamo fare una controstoria dobbiamo partire da un punto: nel momento in cui è finito e il rais è stato ucciso, era in corso una fase di apertura soprattutto sul piano economico”. Gheddafi sapeva che da lì sarebbe passata la possibile riqualificazione del suo paese davanti alla Comunità internazionale.

“Aprire l’economia era parte del dibattito interno tra riformisti e conservatori – continua Varvelli, uno dei massimi esperti internazionali del teatro libico – tant’è che lui era su una posizione più conservatrice, perché temeva che l’apertura avrebbe fatto entrare nel paese capitali stranieri e questo gli avrebbe impedito di essere l’unica mano che sfamava il popolo. Leva che usava per il consenso e che rischiava di essere sostituita da strutture intermediarie, facendogli perdere presa sui cittadini, annacquando la forza del padronaggio”.

E dunque, apertura sì, per necessità, ma solo parziale? “La Libia – secondo il direttore dell’Ecfr – sarebbe rimasta un regime ibrido non certamente liberale ma in parte aperto al business internazionale. Qualcosa come l’Egitto, o il sistema algerino. All’interno di questo regime, i figli del rais avrebbero via via preso più importanza. Su tutti sicuramente Saif al Islam, che probabilmente nel corso di questo decennio sarebbe diventato il factotum libico, lasciando al padre un ruolo di guida formale, una sorta di padre della patria per così dire, una posizione di facciata in cui mantenerlo finché sarebbe stato in vita”.

La domanda da un milione di euro da porsi è questa: ci sarebbe stato più ordine? “Possibile”, risponde Varvelli: “In questi dieci anni abbiamo visto la Libia diventare il regno del caos. Guerre civili, destabilizzazioni regionali, infiltrazioni di gruppi terroristici internazionali, crollo della produzione e dell’export di petrolio, situazioni di vita pessime per i cittadini, e ciò nonostante ancora nessuno accetta di fare un passo indietro”.

E il voto? Le elezioni programmate dal processo di stabilizzazione che l’Onu sta guidando e che ha prodotto il governo ad interim di Abdelhamid Dabaiba, risolveranno queste divisioni e queste ambizioni frammentate sul potere portando l’auspicata stabilità? L’analista spiega che nel percorso che sta portando verso le elezioni si cristallizzano queste divisioni e questa corsa al potere: “Non è chiaro quanto i libici vogliano il voto, probabilmente una buona percentuale sì, sebbene c’è disillusione. Invece è più chiaro che c’è una parte sostanziale delle formazioni politiche libiche che non vuole votare, perché non accetto che questo possa limitare il potere di chi perderebbe. Teniamo conto che parti del Paese sono in mano al controllo simil-mafioso di una serie di milizie che certo non accettano arretramenti riguardo la loro presa”.


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