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Perché gli Usa e la Banca mondiale bloccano i fondi al Sudan

La decisione della Banca mondiale di sospendere l’assistenza alle istituzioni transazionali sudanesi ricalca la posizione severa di Washington, che non accetta il golpe militare a Khartum

Il presidente della Banca mondiale, David Malpass, ha annunciato che è stato bloccato l’invio di fondi al Sudan a causa del colpo di Stato di pochi giorni fa — quando il generale a capo del Consiglio Sovrano del Sudan, il generale Abdel Fattah al Burhan, guida dell’organo collettivo a partecipazione civile e militare ha preso il posto del Consiglio Militare di Transizione dopo la deposizione del dittatore Omar Bashir, ha fatto arrestare e destituire il premier Abdalla Hamdok (Hamdok e la moglie sono tornati a casa, ma sotto sorveglianza; due ministri arrestati con lui, di Industria e Informazione, sono ancora detenuti in un luogo sconosciuto).

La mossa guidata dall’ex sottosegretario delle amministrazioni Trump e Bush sta a ricordare che gli Stati Uniti non accettano quanto accaduto (i militari hanno sciolto tutte le istituzioni annunciando che saranno loro a guidare il Paese fino all’età elezioni del 2023), e per questo fanno pressioni su coloro che hanno organizzato il golpe affinché restituiscano il potere ai civili. Pressioni che sono un messaggio anche per chi osserva dall’esterno – con diversi gradi di coinvolgimento – cosa succede in Sudan. In questo i primi in causa sono l’Egitto e i Paesi del Golfo, che hanno con diverse sfumature avuto sempre posizioni più vicine ai militari, così come la Turchia (che ad agosto aveva firmato con Burhan memorandum di intesa su energia, finanza e armi).

La Banca mondiale è un organismo multilaterale, sebbene guidato dagli Stati Uniti. Washington si è mossa anche in forma diretta, bloccando 700 milioni di dollari destinati all’assistenza della transizione democratica sudanese. Effetti anche dello scotto subito, con il colpo di Stato arrivato a pochi giorni dalla visita a Khartum di un alto funzionario del dipartimento di Stato, tornato a ribadire con fermezza che per gli Usa era fondamentale evitare disordini — mentre tensioni stavano montando da qualche tempo, dato che nel giro di qualche settimana l’esercito avrebbe dovuto cedere la guida del Consiglio Sovrano a una figura civile.

Congelare gli aiuti potrebbe avere conseguenze pessime per il Sudan, che soffre da tempo una gravissima crisi economica. A marzo, dopo circa tre anni di vetting, la Banca Mondiale aveva spedito una prima tranche da tre miliardi di dollari, destinati alla ripresa economica e sociale. Erano una boccata d’ossigeno finalizzata all’adesione al percorso di transizione su cui militari e civili si erano accordati. Il golpe ha fatto saltare tutto, e adesso gli americani stanno guidando i processi di pressione per riallineare la situazione.

Processi che inevitabilmente – visto il peso americano messo sul dossier – rimbalzano su altri lati della Comunità internazionale. L’Unione Africana, l’organizzazione che comprende tutti gli Stati del continente, ha messo il Sudan sotto provvedimento sospensivo, per esempio. Significa che al momento Khartum è esclusa da tutte le sue attività dell’unione. Il timore è che il Paese (in cui vivono 44 milioni di persone) scivoli nel caos producendo un bubbone dai potenziali effetti regionali — per altro in un’area dalle enormi criticità com’è il Corno d’Africa. Ma anche che da Washington arrivino ammonimenti incrociati a chi dà spazio ai golpisti.


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