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Taiwan farà la fine di Hong Kong? Risponde Nathan Law

Il co-fondatore di Demosisto e leader del movimento democratico di Hong Kong in esilio: Xi prepara azioni militari a Taiwan, ma l’isola non farà subito la nostra fine. Un’invasione scatenerebbe una guerra totale, sarà un processo graduale. Biden, l’Ue e Draghi possono fare la loro parte per fermare il regime cinese

“Sanzionateli”. Lo ripete di continuo Nathan Law, parlamentare di Hong Kong costretto all’esilio a Londra. Tra le voci più ascoltate del fronte democratico, co-fondatore del partito Demosisto, lo stesso di Joshua Wong, il leader delle proteste in carcere ormai da un anno, Law segue preoccupato l’escalation a Taiwan, l’isola che reclama autonomia dalla Cina, e che la Cina di Xi Jinping vuole riunire a sé, con le buone o le cattive.

Una frase del presidente americano Joe Biden ha gettato benzina sul fuoco. In un’intervista alla Cnn, ha garantito “l’impegno” degli Stati Uniti a difendere Taiwan in caso di un’aggressione militare cinese. “Un segnale sbagliato”, hanno tuonato in risposta da Pechino. La tensione è alle stelle, i rapporti con la Città Proibita “ai loro minimi da quarant’anni”, ha ammesso una settimana fa il ministro della Difesa taiwanese Chiu Kuo-cheng.

“Sia Hong Kong che Taiwan stanno facendo i conti con un regime spietato che vuole cancellare la nostra cultura unica e la nostra identità”. Sono due casi molto diversi, precisa Law. Gli accordi fra Cina e Regno Unito del 1984 prevedeva comunque un “ritorno” di Hong Kong nelle braccia della Cina continentale. Il pugno duro di Xi con l’imposizione della legge di sicurezza nazionale e la soppressione delle opposizioni ha accelerato un processo già in atto. “Taiwan ha la fortuna di potersi distanziare di più dal Partito comunista cinese – dice Law – è un’entità politica indipendente, con un suo governo e un suo sistema politico, possono sviluppare la democrazia in modo più efficace per contrastare la minaccia cinese”.

I tempi non sono ancora maturi però per un attacco frontale delle forze armate cinesi. “Non vedo all’orizzonte un’invasione su larga scala – spiega l’ex parlamentare – credo che Xi voglia lanciare una serie di azioni militari”. Da Pechino non sono mancati avvertimenti. Alcuni senza precedenti, come il sorvolo dei cieli taiwanesi da parte di 58 caccia militari per festeggiare i 72 anni della Repubblica popolare, il 2 ottobre scorso.

Complice Aukus, l’alleanza militare lanciata da Biden insieme a Regno Unito e Australia per costruire una flotta di sottomarini nucleari, i più temuti dai cinesi. Law è convinto che una guerra nell’Indo-Pacifico, ad oggi, non sia nell’interesse dei cinesi. “Si trasformerebbe in una guerra totale, a giudicare dalle recenti reazioni delle democrazie asiatiche e degli Stati Uniti. Credo piuttosto che da parte cinese ci sarà una costante intimidazione, probabilmente piccole schermaglie nelle isole circostanti”.

Dopotutto Taiwan non è solo un obiettivo militare per Pechino. È anche il cuore pulsante del mercato tecnologico più rilevante al mondo: i microchip. A Taipei ha sede Tsmc (Taiwan semiconductor manifacturing company), il primo produttore globale dei “semiconduttori”, i millimetrici “cervelli” digitali alla base di interi settori industriali, dall’automobilistico alla telefonia mobile. “Questa posizione dominante di Taiwan ha un ruolo nell’escalation. L’incapacità di produrre da solo i suoi semiconduttori è un’enorme frustrazione per il governo cinese”.

Se i destini di Taiwan non sono ancora segnati, lo stesso non può dire Hong Kong. La morsa del governo centrale ha spazzato via le opposizioni, arrestato o costretto all’esilio i dissidenti, come Law. “Mi aspetto un continuo sostegno da parte di Stati Uniti e Ue. Le sofferenze di Hong Kong sono lo specchio del potere autoritario di Xi, la sua resistenza dovrebbe trovare la solidarietà della comunità internazionale”, sospira. “Credo che la comunità democratica debba trovare strumenti per mettere questi calpestatori dei diritti umani di fronte alle loro responsabilità, finora si è visto troppo poco”.

Anche l’Italia di Mario Draghi può e deve fare la sua parte, dice l’attivista, che la prossima settimana sarà a Roma per una riunione dell’Ipac (Alleanza interparlamentare sulla Cina) in concomitanza del G20 a guida italiana. “Insieme all’Ue dovrebbero iniziare a sanzionare più ufficiali e dichiarare senza equivoci che, nonostante alcuni problemi globali richiedano soluzioni collettive, la Cina rappresenta una minaccia per la democrazia”. Prima i diritti umani, poi il business: “Ci aspettiamo una dipendenza sempre minore dalla Cina e un sostegno sempre più aperto verso gli attivisti di Hong Kong in esilio”.

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