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Da Taiwan a Huawei, i silenzi cinesi del G20. Parla Duncan Smith

Intervista al parlamentare dei Tories, a Roma insieme all’Ipac (Inter parliamentary alliance on China). Il G20 non può glissare sui diritti umani, la Cina li calpesta ogni giorno e si fa beffe delle battaglie per il clima. Taiwan? È la nuova Praga. E sul 5G Draghi segua Boris Johnson

Iain Duncan Smith è uno dei volti più noti dei Tories. Deputato dal 1992, è stato segretario di Stato per il Lavoro con David Cameron. Oggi è il più vivace animatore di un fronte politico trasversale, in Inghilterra e all’estero, che ritiene la Cina “la più grande minaccia al mondo libero”, l’Ipac (Inter-parliamentary alliance on China). Lo incontriamo a Roma, di fronte a Palazzo Chigi, circondato da attivisti e politici, fra cui il leader della protesta a Hong Kong, Nathan Law e una battagliera radicale, Laura Harth. Arrivati da ogni dove per ricordare ai leader del mondo riuniti nel G20 a guida italiana che la Cina “è un enorme problema”. E che Taiwan, l’isola che vive sotto la minaccia di un’invasione militare cinese, “è la nuova Praga”.

Prima le presentazioni. Cos’è Ipac?

Un’alleanza bipartisan, nata un anno fa, che oggi include le delegazioni di ventuno Paesi, compresa l’India, e più di duecento parlamentari.

Perché venire al G20?

Per ricordare che la Cina è un problema. Distorce il mercato sussidiando le sue imprese, terremota il sistema finanziario con una gestione disastrosa della sua valuta.

Ma voi siete qui per i diritti umani. Giusto?

Certo, sono in cima all’agenda e dovrebbe essere così anche per il G20. Il governo cinese reprime gli uiguri, arresta i manifestanti pacifici a Hong Kong, viola il diritto internazionale occupando il Mar Cinese Meridionale, con buona pace degli allarmi Onu, uccide i soldati indiani al confine. Per non parlare della minaccia numero uno.

Mi faccia indovinare: Taiwan.

Esatto. Ogni settimana si inseguono minacce di un’invasione militare. La Cina oggi rappresenta una minaccia al mondo libero non diversa da quella posta dalla Germania negli anni ’30 o dall’Urss nella Guerra Fredda. Per fortuna c’è chi alza la voce.

Ad esempio?

Un nome per tutti: la Lituania. Ha detto la verità su Taiwan e ne sta pagando il prezzo. I governi europei, Italia inclusa, dovrebbero seguirla e riconoscere a Taipei un pieno status diplomatico.

Ci saranno conseguenze.

Bene, e quindi? In quale mondo possiamo dirci sostenitori della democrazia, della libertà e dei diritti umani, se non siamo pronti a difenderli quando sono minacciati all’estero? La questione è semplice. Se crediamo nel diritto all’autodeterminazione dei popoli, non possiamo chiudere un occhio. Taipei oggi è la nuova Praga.

Torniamo al G20, e alla Cop26 di Glasgow. Senza la Cina un accordo sul clima non si trova.

Vero. Questo non ci obbliga a prostrarci alla Cina. Anche perché i cinesi sono i primi a non voler occuparsi di clima. Xi ha dato forfait al G20 e alla Cop26. Ha appena annunciato che la Cina continuerà a costruire centrali a carbone. C’è la firma cinese sul picco dei prezzi energetici, dal gas al carbone fino al petrolio. Pensare di avere Pechino dalla nostra è una dolce illusione.

Quindi? Cosa vi aspettate dai leader a Glasgow?

Che includano pure la Cina. Patti chiari, amicizia lunga: smetta di distorcere il mercato e occupare altri Paesi, e il resto del mondo tornerà a investire. Xi ha bisogno dei nostri investimenti, e noi siamo diventati troppo dipendenti dai beni cinesi a buon mercato. È ora che l’Occidente prenda una decisione.

Sullo sfondo c’è anche una competizione tecnologica. Boris Johnson ha messo al bando la cinese Huawei dalla rete 5G, come richiesto dagli Stati Uniti. L’Italia dovrebbe seguirlo?

Dovrebbe eccome. A dire il vero, il nostro bando è più ampio: nel giro di tre anni, qualsiasi equipaggiamento tech di Huawei sarà di fatto disinstallato. E la rete 5G sarà riconfigurata per includere altri player affidabili di mercato, come Samsung, Nokia ed Ericsson. Ci vorrà tempo per mettere mano alle distorsioni di Pechino, ma siamo pronti a farlo.

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