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Taiwan-Onu. Come Taipei cerca spazi e chi lo sostiene

Perché la Cina non vuole che l’Onu dia più spazio a Taiwan? Perché sul seggio cinese si basa larga parte della One China policy. Ogni centimetro di indipendenza di Taiwan è un problema per Pechino

Il vicepresidente della Repubblica di Cina, Lai Ching-Tie, posta una foto della grande assembly room delle Nazioni Unite e scrive: “L’Onu è abbastanza grande da fare spazio per Taiwan”.

Il segretario di Stato statunitense, Anthony Blinken, twitta anche lui sull’argomento: “Taiwan è un partner fondamentale per gli Stati Uniti e una storia di successo democratico. Taiwan dovrebbe avere una partecipazione significativa nel sistema onusiano, soprattutto di fronte a un numero senza precedenti di sfide globali”.

Blinken non chiede un seggio, che si porterebbe dietro una serie di questioni di diritto molto complesse e il riconoscimento ufficiale dell’indipendenza, ma un ruolo. Coinvolgere Taiwan su questioni onusiane, dunque globali, significa innanzitutto avere una sponda poggiata sulle enormi capacità tecnologiche taiwanesi (vedere per esempio il caso della pandemia), e allo stesso tempo creare nuovi collegamenti per Taipei.

Collegamenti che complicano il processo di annessione che il Partito/Stato di Pechino in questo momento considera una necessità prioritaria. Anche in questo la ragione è doppia: da un lato la Cina vuole tenere sotto controllo quelle tecnologie e quelle capacità taiwanesi; dall’altro considera impossibile l’esistenza di un’altra Cina, sdoppiamento impensabile per una potenza.

Risposta da Pechino sulla retorica Onu-Taiwan: “Non ha alcun diritto di partecipare all’Onu”, ha affermato il portavoce dell’Ufficio del governo cinese per gli Affari con Taipei, in quanto le “Nazioni Unite sono una organizzazione governativa internazionale composta da stati sovrani”.

Cinquant’anni fa, il 25 ottobre 1971, la Repubblica di Cina (Roc) fu formalmente espulsa dalle Nazioni Unite con un voto durante la 26esima sessione dell’Assemblea Generale e sostituita dalla Repubblica Popolare Cinese (Rpc), che aveva preso il potere a Pechino alla fine della guerra civile del 1949. Il governo taiwanese era fuggito sull’isola seguito da milioni di rifugiati, ma aveva continuato a tenere il posto di “Cina” all’Onu sebbene esiliato. Dopo anni, Pechino era riuscito, con la Risoluzione 2758, a ottenere una maggioranza schiacciante sulla sua inclusione al Palazzo di Vetro, dove tuttora risiede come unica Cina tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Era l’anno dell’attività diplomatica con cui Henry Kissinger preparava la visita nixoniana a Pechino — contatto storico da cui, tra le varie cose, scaturì la policy “One China”, con cui non solo gli Usa ma tutti gli Stati che vogliono imbastire relazioni con la Repubblica popolare cinese devono essere fedeli, riconoscendo l’inesistenza formale di Taiwan. Linea sulla quale si basa l’ambiguità strategica nei rapporti taiwanesi, quelli in cui si costruiscono con Taipei relazioni di vario genere (per gli americani anche militari, per gli europei solo economico-commerciali), senza formalmente riconoscere l’isola come stato indipendente.

Il rumore attorno alle dinamiche onusiane su Taiwan ha rovinato l’autocelebrazione cinese. Americani e taiwanesi hanno parlato recentemente di come implementare, adesso, il ruolo della Repubblica di Cina nel principale dei consessi multilaterali. Ed è anche questo un segmento del confronto tra modelli in atto sulle relazioni internazionali: la democrazia taiwanese è un simbolo davanti all’autoritarismo dell’altra Cina.

Nei giorni scorsi, in occasione del cinquantesimo onusiano cinese, il dipartimento di Stato americano ha reso pubblico che, durante un video-meeting, “rappresentanti di alto livello” degli Stati Uniti e del ministero degli Esteri di Taiwan hanno discusso “l’espansione della partecipazione di Taiwan alle Nazioni Unite e in altri consessi internazionali”.

“Gli Usa devono essere cauti con le loro parole e azioni sulla questione di Taiwan e non inviare segnali sbagliati alle forze separatiste che puntano all’indipendenza di Taiwan, in modo da non danneggiare seriamente le relazioni Cina-Stati Uniti per la pace e e stabilità nello Stretto di Taiwan”, è stata la risposta di Wang Yi, il ministro degli Esteri cinese che tra pochi giorni sarà in Italia per partecipare al G20, dato che il leader Xi Jinping ha deciso di declinare l’invito per ragioni legate al Covid.

Per la Cina, il riconoscimento ottenuto con la risoluzione del 1971 è uno dei capisaldi del principio One China, per questo si pone in termini così duri. “Gli Stati Uniti si umilieranno sfidando la risoluzione 2758 delle Nazioni Unite, minando il principio di una sola Cina”, scrive il Global Times, organo di propaganda internazionale del Partito/Stato. E ancora: “Questo è un tentativo da parte di Washington di sfidare fondamentalmente il principio di una sola Cina, cercando di rompere lo status quo politico della questione di Taiwan”.

Ogni centimetro di indipendenza di Taiwan è un problema per Pechino. La Cina ha anche espresso la sua irritazione per la visita che una delegazione del Parlamento europeo, guidata dall’eurodeputato francese Raphael Glucksmann, sanzionato a marzo da Pechino, farà la prossima settimana a Taiwan. “Non avere scambi ufficiali in alcuna forma con le autorità di Taiwan è parte essenziale dell’adesione al principio della ‘Unica Cina’. Il Parlamento europeo è un organo ufficiale dell’Ue e se inviasse deputati in visita a Taiwan, violerebbe gravemente l’impegno dell’Ue nei confronti del principio della ‘Unica Cina’, danneggerebbe un interesse principale della Cina e minerebbe il sano sviluppo delle relazioni Cina-Ue”, ha scritto la rappresentanza cinese a Bruxelles — dove Pechino teme il concretizzarsi di una proposta europarlamentare su un accordo commerciale Ue-Taiwan.



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