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Un attacco anfibio per conquistare Taiwan. Xi ha una sola carta ed è molto costosa

Il generale Carlo Jean analizza le quattro opzioni che la Cina ha per rimettere le mani su Taipei. L’unica ipotesi percorribile è uno sbarco, ma scatenerebbe una reazione Usa con il rischio di un conflitto nucleare. E il leader di Pechino lo sa bene

Taiwan, il cui nome ufficiale è Repubblica di Cina (Roc), non ha mai abbandonato il sogno del Kuomintang, sconfitto nel 1949 da Mao Zedong, di riconquistare l’intera Cina con l’aiuto degli Stati Uniti. Anche la Repubblica popolare cinese (Rpc) ha sostenuto la necessità dell’unificazione dell’isola alla Cina, non escludendo mai la possibilità dell’opzione militare. Essa era stata tacitamente accantonata dopo il 1958, quando talune delle 166 isolette che appartengono a Taiwan erano state cannoneggiate dall’Esercito popolare di liberazione (Pla). L’idea che lo status quo potesse essere mantenuto era dominante dopo la fine nel 1979 del trattato di alleanza fra Taiwan e gli Stati Uniti e il ritiro dei 30.000 soldati americani stanziati nell’isola dal 1954, sulla base del Mutual Defense Act. Richard Nixon e Henry Kissinger, per permettere la loro visita a Pechino nel 1972 e il suo “reclutamento” in funzione anti Unione Sovietica, avevano riconosciuto la politica “Una Cina”, pur subordinando la riunione dell’isola alla RPC a negoziati pacifici con l’isola. Essi, impostati sulla formula “una nazione, due sistemi”, simili a quelli poi adottati per Hong Kong, non avevano fatto decadere l’opzione militare da parte di Pechino. Lo dimostrano le provocatorie manovre militari cinesi del 1996 nello Stretto di Taiwan, fatte cessare da Bill Clinton con l’invio nell’area di due gruppi portaerei.

La situazione oggi è mutata. La Cina è divenuta un potente rivale degli Stati Uniti. La diplomazia cinese è dominata dall’aggressività dei cosiddetti “lupi guerrieri”. L’opzione militare per Taiwan, da remota eventualità, considerata possibile seppur con riserva, solo fra una decina d’anni, con l’avanzamento del potenziamento militare cinese, è d’improvviso ritenuta imminente ed è divenuta centrale nel dibattito strategico mondiale. Se il confronto fra gli Stati Uniti e la Cina dovesse divenire militare, esso non potrebbe essere limitato. Coinvolgerebbe direttamente o indirettamente l’intero mondo. Sarebbe impossibile limitarne l’escalation.

Quali sono i motivi di tale mutamento di politica da parte della Cina? Perché Taiwan non può lasciarsi intimidire dalle minacce cinesi di ricorso alla forza? Perché gli Stati Uniti non la possono abbandonare, pur correndo il rischio di una guerra totale con la Cina? Quale potrebbe essere la strategia di Xi Jinping? E quella Stati Uniti? Che cosa può fare l’Europa? Sono interrogativi che dovrebbero essere discussi più di quanto lo siano stati sinora, soprattutto in Italia.

Il mutamento della politica cinese non è solo dovuto al rafforzamento militare della Cina. Non deriva neppure da quello delle alleanze anticinesi che Joe Biden sta iniziando per dare concretezza al Pivot to Asia di Barack Obama, dal Quad, prevalentemente economico e tecnologico, all’Aukus, destinato a costituire il nucleo centrale di un’alleanza militare. Il potere e la linea politica di Xi Jinping sono contestate dalle forze del mercato. Lo dimostrano l’incarcerazione di potenti industriali e dei loro sponsor politici e le critiche rivolte sempre più apertamente alla Belt and Road Initiative (Bri). La sua “trappola del debito” sta rivelandosi un boomerang. Pechino non riesce a farsi rimborsare i debiti, né a ottenere visibili vantaggi strategici. Xi, per mantenere elevato il suo consenso, deve portate a casa qualche successo. Lo cerca in politica estera. Il tema di Taiwan è ideale per mobilitare la patriottica opinione pubblica cinese. Lo è anche la sfida alle pretese egemoniche degli Stati Uniti. Essi vengono in Cina considerati in inarrestabile declino, quindi, incapaci di assumere rischi di un conflitto con la Cina per difendere un obiettivo per loro secondario come Taiwan, che è invece per la Cina un obiettivo esistenziale, quindi suscettibile di ogni rischio. La loro neutralizzazione per Taiwan giustifica anche le spese militari che il popolo cinese sostiene.

Per gli Stati Uniti, invece, Taiwan non costituisce un tema secondario. È centrale per il loro status di grande potenza. La caduta di Taiwan a seguito di un attacco militare di Pechino segnerebbe la fine della loro già contestata credibilità internazionale. Il disastro si estenderebbe dall’Indo-Pacifico al resto del mondo, Europa e Nato comprese. Dovrebbero ripiegare sul “sistema continentale” delle due Americhe, fantasia costante degli isolazionisti americani. Per gli internazionalisti liberali alla Biden, Taiwan rappresenta anche un simbolo importante: quello del successo delle democrazie sui sistemi autoritari. Sotto il profilo strategico, la perdita di Taiwan comporterebbe la distruzione del controllo statunitense sulla prima catena di isole, che separa la Cina dalle rotte del Pacifico. Sarebbe un grave scacco. Un confronto militare fra Stati Uniti e Cina avrebbe luogo sugli Oceani, non in Eurasia. Il controllo dei punti di passaggio obbligato fra la Cina e gli Oceani Indiano e Pacifico dà oggi agli Stati Uniti un grande vantaggio. Gli Stati Uniti continueranno nei confronti di Taiwan la loro attuale politica di “ambiguità strategica”. Teoricamente la sua trasformazione in un’alleanza formale aumenterebbe il loro potere deterrente. Ma, in pratica, potrebbe porre la Cina alle corde, inducendola ad attaccare. Gli Stati Uniti aumenteranno la fornitura a Taiwan di armamenti e forse anche il sostegno logistico per quelli più sofisticati. Concorreranno poi con nuclei di forze speciali alla predisposizione di una difesa prolungata dell’isola in caso d’occupazione con le sperimentate tattiche dello Stay Behind (“Gladio”).

Taipei non accetterà mai di essere assorbita dalla Rpc. La popolazione dell’isola è sempre più contraria a tale eventualità. Sembra determinata a battersi per conservare la sua indipendenza di fatto. Non vuole provocare la Cina. Quindi, non proclamerà un’indipendenza formale. Sa che costituirebbe un casus belli, e che si porrebbe dalla parte del torto. Ha fiducia nell’intervento americano in caso di attacco militare. Ha abbandonato ogni fiducia nella formula “una nazione, due sistemi”, dopo la fine disastrosa che essa ha avuto ad Hong Kong. Si prepara a resistere ad oltranza a un attacco cinese. La “strategia a istrice” che ha adottato e che sarà completamente attuata nel 2022 con la nuova legge sulla difesa nazionale, prevede un aumento considerevole delle spese militari e una maggiore velocità di mobilitazione delle riserve. Mira a guadagnare il tempo critico. Quello necessario agli Stati Uniti per intervenire, senza che l’isola sia stata conquistata dall’opzione decisiva per la sua annessione alla Cina: la sua conquista con un assalto anfibio.

Le strategie che Pechino può adottare, per indurre Taipei a cedere, dopo il probabile fallimento di qualsiasi azione d’intimidazione – come quello in corso dell’invio di decine o anche di centinaia di aerei nella zona d’identificazione della difesa aerea taiwanese, al di fuori dello spazio aereo di Taiwan – possono essere diverse. A parer mio tutte, eccetto l’ultima – quello di un poderoso assalto anfibio – non potranno piegare i governi taiwanese e americano. La prima consisterebbe nella conquista di un certo numero di isolotti che, anche nel Mar Cinese Meridionale, appartengono a Taiwan (sono in totale 166), a partire da quelli situati in prossimità delle coste cinesi. Il rischio che corre Pechino è l’affondamento di qualche suo mercantile. La seconda strategia consisterebbe in massicci attacchi aerei e missilistici, volti a distruggere le oltre 40 batterie antiaeree e antimissili dell’isola, e per mettere fuori uso le basi – talune in caverna – dei suoi caccia intercettori. La terza sarebbe quella di un blocco navale e cibernetico, che inciderebbe grandemente sull’economia dell’isola. Sottoporrebbe però le navi e i sommergibili cinesi al rischio di una risposta efficace. La quarta opzione sarebbe quella di un attacco anfibio. Dovrebbe essere su larga scala. Taluni esperti hanno valutato la necessità per la Cina di mobilitare complessivamente 2 milioni si soldati e migliaia di navi. La parte più difficile sarebbero i rifornimenti logistici delle forze sbarcate. La prima ondata, quella decisiva, non potrebbe essere molto consistente. Sarebbe limitata dall’esistenza di sole 14 spiagge di non grandi dimensioni idonee a un attacco anfibio e dalla loro concentrazione nel sudovest dell’isola, dove lo Stretto di Taiwan è più lontano della parte settentrionale dell’isola, più montagnosa, con cime oltre i 3.000 metri. Tutte le coste sono fortificate e presidiate dai 300.000 uomini che Taiwan può mobilitare entro 24 ore, a cui si aggiungono 3 milioni di riservisti.

Insomma, conquistare l’isola non è uno scherzo. Comporterebbe costi e perdite notevoli, oltre che lunghi tempi che consentirebbero agli Stati Uniti d’intervenire. Xi lo sa certamente, come è anche consapevole che non può limitarsi ad azioni solo limitate, dopo le quali ritirarsi proclamando “missione compiuta”. Qualsiasi reazione americana dovrà per forza di cose colpire le basi aeree e missilistiche in territorio cinese. Le cose potrebbero mettersi molto male per la Pla. Per esso sarebbe la fine. Prendendo la decisione di ricorrere alla forza, sa che non sarebbe poi possibile limitarla. Un conflitto diverrebbe nucleare e coinvolgerebbe i territori sia cinese che americano. Ci penserà perciò due volte prima di passare dalle intimidazioni propagandistiche, all’uso reale della forza. Il resto del mondo, l’Europa compresa, non può far altro che incrociare le dita e sperare che tutto si risolva senza prova di forza.

(Foto via Weibo)


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