L’adozione di regole formali di trasparenza, come tende a fare il Ttc, riduce la possibilità di “colpi bassi”, di scandali e di tensioni fra alleati, oltre a consentire una maggiore conoscenza dei rischi e delle sfide cinesi. Stimola cooperazione e sviluppo. Rafforza l’Occidente o, almeno, ne frena il declino. L’analisi di Carlo Jean
I legami transatlantici sono essenziali sia per gli Usa che per l’Ue. Finora entrambi hanno ignorato o finto di ignorare il loro declino nel contesto internazionale. Oggi sembrano accorgersi che sono interdipendenti e che è vantaggioso per entrambi cooperare per fronteggiare le sfide globali, economiche, tecnologiche e infrastrutturali della Cina, oltre a quelle regionali della Russia, “gigante” militare ma “nano” economico.
Quindi, che devono unire i loro sforzi, non solo stabilendo una nuova sinergia fra la Nato e l’Ue, ma anche superando lo stallo della Transatlantic Trade and Investment Partnership. Con Trump i rapporti economici transatlantici stavano trasformandosi quasi in una guerra economica, che rischiava di espandersi in campo politico e strategico.
Nella “pace fredda” fra gli Usa e la Cina, l’Europa non è più militarmente in prima linea. Lo rimane negli altri settori della strategia globale di contenimento di Pechino in corso di definizione a Washington. Per ora essa ha escluso l’Ue, che ha una visione diversa della Cina. Pensa che il “miracolo cinese” si esaurisca da solo per le sue contraddizioni interne e per la crescita dell’India. Afferma, anche per continuare a fare affari con Pechino, che il contrasto militare ed economico con il “gigante cinese” spetti a Washington e ai suoi alleati asiatici.
Biden attribuisce priorità all’Indo-Pacifico, trascurando l’Ue. Non la vuole fra i piedi, per le sue divisioni e le sue petulanti e spesso querule ambizioni. Lo si è visto nel Summit del Quad, dedicato soprattutto all’economia e alla tecnologia, e, in campo militare, nell’Aukus, che tanta furia ha scatenato a Parigi sia per la cancellazione del contratto dei sottomarini sia per l’esclusione della Francia da una regione in cui vivono 2 milioni di suoi cittadini e in cui mantiene 7.000 soldati.
Nella strategia Usa verso la Cina ha rilievo centrale il mantenimento della superiorità tecnologica. Per prima cosa Biden ha cercato di realizzarlo, mettendo ordine in casa propria. L’Innovation and Competition Act, entrato in vigore lo scorso giugno, non solo incentiva lo sviluppo delle tecnologie critiche, ma ne rafforza il controllo anche a carico delle Mnc americane operanti in Cina e in Russia. Nello stesso mese, Biden ha proposto agli alleati europei la creazione a Pittsburg del Ttc (Trade and Technology Council). Esso deve proporre ad un Summit, da tenersi entro fine anno o all’inizio del 2022, una serie di misure collaborative in campo commerciale (anche per prevenire contenziosi sopperendo alla scomparsa delle capacità d’arbitrato del WTO), tecnologico (per stimolare la cooperazione transatlantica nei settori dell’Intelligenza Artificiale, del 5G, dei semiconduttori e dei prodotti farmaceutici) e degli investimenti esteri (non solo industriali, ma anche infrastrutturali). La missione del Ttc è quella di stimolare la cooperazione transatlantica, di definire regole comuni e di scambiarsi informazioni. Il suo impatto non sarà quindi immediato, ma nel medio-lungo periodo.
Nell’organismo sono rappresentati i ministri del Commercio, non quelli della Difesa. Quindi, almeno direttamente, non è competente in fatto di sicurezza militare. Lo sarà però indirettamente, dato che le alte tecnologie sono spesso “duali”. Nei suoi compiti non è poi esplicitamente menzionato il vitale e controverso problema del controllo delle tecnologie critiche, argomento divisivo, che tocca la sensibilità degli alleati europei degli Usa. Temono che esso comporti l’erosione della loro sovranità, soprattutto se gli Usa intendono porre in atto un sistema di controlli e di autorizzazioni all’export analogo a quello previsto dal Battle Act del 1950 (Battle è il cognome del senatore Usa che lo propose!) e del CoCom.
Temono anche l’accettazione formale dell’estensione extraterritoriale delle regole Usa e che venga utilizzato come strumento per ottenere vantaggi commerciali. Gli europei non hanno del tutto torto. “Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio”, tanto più che il Segretario di Stato Blinken ha molto insistito sul tema dei controlli degli investimenti industriali e infrastrutturali e di quelli tecnologici nei riguardi di Pechino, per evitare di concorrere ad aumentarne la potenza strategica. Ma devono accettare il rischio, facendo buon viso a cattivo gioco. Hanno bisogno degli Usa più di quanto questi ultimi abbiano bisogno di loro.
La necessità di controlli tecnologici è ineludibile. È presupposto per qualsiasi collaborazione. Un ritorno al passato cioè al rigido sistema del CoCom – con le sue liste d’embargo, autorizzazioni di eccezioni e sistema sanzionatorio – è oggi impraticabile. Gli Usa non avrebbero più la forza d’imporre sanzioni, se l’Ue rimane unita. Lo possono fare solo con i singoli Stati e imprese, evitando pesanti reazioni. Biden ha perciò scelto una linea soft e flessibile del solo scambio d’informazioni. Solo gli ingenui possono però pensare che la trasparenza sia fine a se stessa. Sarà evidentemente finalizzata a pressioni, incentivi e sanzioni di varia natura, attuati informalmente per evitarne ricadute negative sulle politiche interne degli alleati. Improbabile è che gli Usa le utilizzino per trarne vantaggi commerciali, oltre quanto già fanno ora. La “pace calda” con la Cina è destinata a durare, a meno che qualche incidente la trasformi in conflitto armato. Gli Usa continueranno quindi a trarre vantaggio dalla cooperazione con l’Ue.
Più incerto è il rapporto con Mosca. Macron e larghe parti delle classi dirigenti europee e americane ritengono possibile separare Mosca da Pechino e quindi rivitalizzare contro la Cina il “triangolo di Kissinger”, dato il timore russo del “pericolo giallo”. Muterebbero in tal caso la posizione strategica dell’Europa e i rapporti transatlantici. Permarrebbero però nei confronti della Cina i problemi economici, tecnologici, ecc. trattati dal Ttc. Le decisioni che saranno prese nel suo ambito avranno influenza sul nostro futuro anche a lungo termine.
Per concludere, occorre sottolineare che, sebbene non è politicamente corretto affermare che gli Usa e i nostri partners europei controllino già le nostre esportazioni e gli investimenti stranieri in Italia, tali controlli già esistono. Lo fanno tutti. Lo facciamo anche noi, a livello informale e in modo più o meno segreto. Solo gli ingenui possono pensare che non ci si spii fra alleati. Sono tali controlli a consentire la cooperazione fra le imprese soprattutto fra quelle ad alta tecnologia. Lo scambio formale d’informazioni non eliminerà l’intelligence economica, come ho suggerito una decina di anni fa con il prof. Paolo Savona. L’adozione di regole formali di trasparenza, come tende a fare il Ttc, riduce però la possibilità di “colpi bassi”, di scandali e di tensioni fra alleati, oltre a consentire una maggiore conoscenza dei rischi e delle sfide cinesi. Stimola cooperazione e sviluppo. Rafforza l’Occidente o, almeno, ne frena il declino.
Non si è deciso ancora che forma debbano assumere le regole concordate nel Summit del Ttc. Potrebbe esser un accordo informale o un trattato vincolante. La prima soluzione mi sembra molto più probabile. Per i rapporti con la Cina e con la Russia – “convitati di pietra” dei negoziati – esistono differenze molto sensibili non solo fra gli Usa e l’Ue, ma anche all’interno di quest’ultima. La mancanza di una visione comune nell’Ue potrebbe impedire un accordo multilaterale. Gli Usa ricorreranno in tal caso ad approcci bilaterali, che rischiano di frammentare l’Unione e anche di indebolirne i controlli sulle industrie a più alta tecnologia. Come già accadeva nella guerra fredda, le pressioni e sanzioni Usa non colpiranno tanto gli Stati, quanto direttamente le imprese. Esse sanno quanto gli Usa abbiano la “mano pesante”. I meccanismi usati sono noti. Tutte le imprese europee ad alta tecnologia sono collegate con società americane fornitrici del Pentagono. A queste ultime verrà bloccata ogni commessa qualora non rompano i rapporti con coloro che risultano inadempienti alle regole Usa.
Volente o nolente, l’Europa si adeguerà a Pittsburgh alla volontà americana, “cope”. Gli Stati che pensano di poter “fare i furbi”, violando di nascosto le regole concordate, rischiano di rimanere a guardare impotenti le loro imprese che rispetteranno le imposizioni degli Usa. Ne temono le reazioni più di quelle dei loro governi. Avverrebbe come per le sanzioni all’Iran.
La crisi finanziaria e a più lungo termine quella demografica di Pechino non sono tali da frenarne la crescita e la pericolosità anche strategica. La Bri, malgrado le sue attuali difficoltà, dovute all’effetto “boomerang” della debt trap diminuirà la sua vulnerabilità geografica. L’apertura della rotta artica la ridurrà ulteriormente. Con lo spionaggio e gli sviluppi autonomi, sta aumentando il suo livello tecnologico. La crescita dell’“Officina del mondo” non si basa più solo su una volenterosa manodopera a basso costo. Le sue produzioni hanno un crescente livello tecnologico. La de-globalizzazione di molte supply chains non annullerà la dipendenza da Pechino. La transizione energetica e lo sviluppo del digitale rafforzeranno la Cina. Pannelli fotovoltaici, batterie e “terre rare” sono quasi monopolizzate da Pechino. La “pace fredda”, a meno di incidenti che la trasformino in un conflitto armato, durerà a lungo. La Cina non crollerà per le sue contraddizioni interne. È perciò essenziale approfondire che cosa realisticamente comporteranno per noi il Ttc e i sistemi di controllo che metterà in campo.