Dopo la tarantella delle amministrative, va in replica la goleada del centrodestra nella partita per il Quirinale, ma nella porta sbagliata. Così sul Colle più alto torna a stagliarsi un’antica maledizione della politica italiana. Il mosaico di Carlo Fusi
Se ti capita un assist, se sei lì davanti alla porta vuota e tiri alle stelle, il meno che accade è che i tifosi si mettono le mani nei capelli e restino delusi: forse la prossima volta disertano lo stadio. È il copione che da tempo va in scena dalle parti del centrodestra e che minaccia di riproporsi anche per il Quirinale.
Dopo la non entusiasmante (eufemismo) prova delle amministrative, con i candidati scelti all’ultimo minuto e gli inevitabili contraccolpi negativi tra cui spicca la disaffezione del popolo anti-sinistra che è rimasto a casa, la replica è pronta.
Come infatti nel caso di Roma, dove dopo il sindaco pd dimesso dal notaio e il quinquennio pentastellato che aveva scontentato perfino lo zoccolo duro grillino e dunque per il centrodestra si trattava solo di spingere il pallone in porta, ora gli sfrangiamenti e le divaricazioni interne all’alleanza minacciano di scompaginare i rapporti e dilapidare l’occasione unica da decenni di essere determinanti per l’elezione del presidente della Repubblica visto che, specularmente, per la prima volta da decenni il centrosinistra non è autosufficiente, non ha i voti per scegliersi da solo il successore di Mattarella.
Beh, è qui che parte la tarantella. Giorgia Meloni, come sempre la più determinata, assicura di volere elezioni anticipate nel 2022 sempre e comunque, sia che Mario Draghi vada al Quirinale sia che la pallina della roulette finisca su un altro candidato. In questo modo per un verso accresce l’alone di inquietudine che nel Palazzo e tra i peones aleggia intorno a SuperMario ché tanto a votare ci si deve andare lo stesso; dall’altro spinge su un tasto mettendo in conto anche di non riuscire a vedere esaudita la richiesta: l’importante è farla e poi si vede.
Sul fronte opposto sta invece Silvio Berlusconi che un giorno si accredita come candidato al Colle e il giorno dopo fa smentire la cosa e che comunque Draghi lo vuole a palazzo Chigi fino al termine naturale della legislatura ma soprattutto anche dopo. Pure lui in qualche modo circoscrivendo l’arma nucleare delle elezioni, visto che comunque vada e qualunque sia il responso delle urne e la volontà degli elettori, il presidente del Consiglio è già deciso. La maggioranza che lo deve sostenere meno, ma quella è una partita che si gioca dopo che i seggi si sono chiusi.
Nel mezzo, come ormai capita sempre più spesso, ci sta Matteo Salvini. Che in teoria quell’area dovrebbe capeggiare e che invece vede sfumare la prospettiva sia per i sondaggi sempre più amari, sia per le continue strambate sull’indirizzo politico.
Adesso si avvicina la madre di tutte le battaglie politiche, dove si mischiano interessi, tattiche, ambizioni: e il copione, come detto, non cambia.
C’è stato il tentativo di partito unico Lega-FI e poi di federazione. A seguire, la vagheggiata intesa del centrodestra di governo. Per ultima, la rivendicata marcia appaiati in vista della riunione dei Grandi Elettori. Ogni volta il risultato è stato il medesimo: abbracci, sorrisi, photo-opportunity. E poi ognuno per la sua strada.
Il perché non è difficile da individuare. Lega, FdI e Forza Italia hanno ciascuno un’idea diversa su cosa e come dovrà essere l’Italia del dopo pandemia. Ciascuno segue un pezzo d’elettorato che finché sia tratta di dire dei no è più o meno compatto (meno che più, ma lasciamo perdere) ma quando si tratta di dire dei sì è lacerato e finanche incompatibile. Manca una leadership unitaria, latita un progetto e una visione comuni, risulta un’Araba fenice l’amalgama progettuale, e la classe dirigente fatica ad acquisire una fisionomia precisa e convincente.
Il risultato è sul centrodestra incombe la possibilità che si presenti in ordine sparso agli scrutini per il Quirinale. Perdendo una chissà quanto riproponibile possibilità di incidere sulla massima carica dello Stato. Deludendo ancora una volta il proprio popolo.
E magari andando davvero a votare tra pochi mesi riproponendo uno schema di alleanza potenzialmente maggioritaria ma poi incapace di governare. In quel caso si riproporrebbe una maledizione antica, che peraltro non riguarda solo il centrodestra: quella di un Paese strutturalmente incapace di stabilità e lungimiranza. Rendendolo così inutile il tentativo di governo di Draghi.