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Biden, Macron e l’autonomia (im)possibile. Parla Gressani (Lgc)

Dopo il ritiro in Afghanistan e il caso Aukus, al G20 di Roma “si è chiusa una sequenza”. Intervista a Gilles Gressani, fondatore e direttore del Grand Continent. Draghi ha indossato la veste del leader politico, Macron si è preso una rivincita. Al multilateralismo la Cina risponde con il clientelismo, e rischia di vincere. A meno che…

Gilles Gressani, direttore del Groupe d’études géopolitiques e fondatore della rivista Grand Continent, è convinto che con il G20 a Roma gli Stati Uniti di Joe Biden abbiano chiuso “una fase”. Dopo il ritiro dall’Afghanistan e la vicenda Aukus il multilateralismo non è morto, ha cambiato forma. E non è detto che l’Europa riesca ad adattarsi.

A Roma si sono incontrati due mondi, Ue e Stati Uniti, che faticano a capirsi su tanti fronti…

In politica estera l’Ue è soprattutto la somma delle sue parti. Il G20 di Roma ha messo sotto i riflettori il riassetto di potere nelle relazioni transatlantiche. Si è visto in modo plastico che la Germania è una potenza in piena transizione, con Angela Merkel e Olaf Scholz, un’ex cancelliera e un quasi-cancelliere, mano nella mano. Si è vista la Francia sventolare la bandiera dell’autonomia strategica europea, una proposta che dopo il caos in Afghanistan tutti i Paesi europei, anche i più restii, prendono in considerazione.

È un cambio della guardia?

Presto per dirlo. La Francia ha individuato un problema reale. Ma non è detto che il resto dell’Europa voglia lo stesso medico per la diagnosi e per la cura. Dopotutto Macron naviga in acque agitate, deve fare i conti con una dura campagna elettorale. E ci sono altri Paesi in cerca di nuovi spazi.

Come l’Italia?

Come l’Italia, certo. Per Draghi il G20 è stato un esperimento politico riuscito. Lo ha presieduto da leader politico, senza avere un partito. E lo ha fatto con un grande lavoro interministeriale: non un tecnico solitario, ma un capo del governo che ha messo in primo piano figure come Luigi Di Maio. Il carisma e la statura internazionale hanno fatto il resto.

Però è Macron che porta a casa il bottino più grande. Giusto?

Macron ha impostato i termini del discorso. Ha capito che siamo entrati in una fase di ridefinizione profonda della geopolitica mondiale. In questo contesto ci sono due mondi in costruzione: uno cinese in espansione, uno americano in ritirata, ma ancora dominante sul piano valoriale. In mezzo è rimasto poco spazio, e poco tempo. Ma…

Ma?

Come ho detto, se tutti, dai leader ai tecnocrati, condividono la diagnosi francese, sulla cura ci sono diverse vedute. In pochi, ad esempio, vedono con favore un monopolio francese della Difesa comune europea. Che sarà presto al centro di tensioni, dentro e fuori l’Ue.

Poi c’è la vicenda Aukus, il patto sui sottomarini fra Australia, America e Regno Unito che solo un mese fa Macron definiva “una coltellata nella schiena”. A Roma il presidente francese ha incassato le scuse di Biden. Un successo?

Parlano i fatti. Un’autocritica così severa di Biden, in pubblico e di fronte a Macron, non era scontata. Per il resto la Francia ha ripreso un vecchio copione attribuito a Condoleezza Rice all’indomani dell’entrata in guerra in Iraq: “Punire la Francia, ignorare la Germania e perdonare la Russia”. L’Eliseo ha adottato lo stesso metodo per il caso Aukus: “Punire l’Australia, ignorare il Regno Unito e perdonare gli Stati Uniti”.

Di Afghanistan si è parlato poco e niente. Lo strappo americano è già acqua passata?

No, ci vorrà tempo. Il ritiro da Kabul è stato uno shock per l’Europa. Gli Stati Uniti non hanno fatto il minimo sforzo per proporre uno storytelling condiviso a chi per vent’anni ha inviato i suoi uomini laggiù, boots on the ground. Tre mesi fa, in Afghanistan, si è chiusa una sequenza. Anzi, è tramontata un’ipotesi.

Quale?

Quella dell’esportazione delle formule occidentali per la democrazia liberale in zone distanti geograficamente e strategicamente dagli Stati Uniti. In Afghanistan abbiamo assistito a una ritirata concettuale, direi quasi spirituale dell’America dall’Asia centrale.

È davvero una vittoria per la Cina di Xi? O il Pivot to Asia dovrebbe preoccupare Pechino?

È un punto a favore dell’ipotesi cinese, che è antitetica a quella americana. In vent’anni la Cina è riuscita a cambiare di spalla il fucile, a costruire un regime mettendo insieme due cose, un contratto sociale per la crescita e una nuova forma di nazionalismo. Al multilateralismo, ormai in piena decadenza, la Cina contrappone un altro modello delle relazioni internazionali: il clientelismo. Non esistono alleati ma solo clienti, non ci sono interessi al di fuori di quelli geoeconomici.

Quindi il ritorno del multilateralismo celebrato a Roma è una farsa?

Questa è una grande domanda che pende sui rapporti fra gli Stati Uniti di Biden e l’Europa a trazione franco-tedesca con la possibilità forse di una triangolazione italiana. Ci sono gli estremi per una nuova alleanza transatlantica o c’è il rischio che questa si riduca a un rapporto di pura clientela?

O forse c’è solo un’incomprensione reciproca. Walter Russell Mead scrive sul Wall Street Journal che questa Europa non ha davvero capito Biden e il suo Pivot-to-Asia.

C’è un fondo di verità. Abbiamo un problema di rappresentazione geopolitica. Quando a Washington parlano di “nuova Guerra Fredda” dobbiamo capire che stiamo parlando di una rottura, non di una continuità. Gli spazi e i protagonisti del riallineamento geopolitico sono totalmente diversi rispetto alla storia dell’opposizione dell’URSS e degli Stati Uniti. Se il grande gioco strategico si sposta dall’Europa continentale all’Indo-Pacifico, l’Europa finisce per avere una posizione periferica. Per costruire il nostro futuro bisogna partire da qui: dobbiamo accettare di pensare come una periferia, senza diventare una provincia.

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