Riaprire i canali, trovare cooperazioni settoriali, evitare incidenti. Dopo la telefonata tra Biden e Xi serve una road map per “tracciare alcune linee rosse” nella competizione fra Usa e Cina, dice Richard Fontaine, direttore del think tank americano Cnas. Ecco quali
Chi si attendeva un “summit” si è dovuto ricredere. La videochiamata di lunedì pomeriggio fra Joe Biden e Xi Jinping – tre ore e mezzo con una pausa caffè – con un summit c’entra poco. È la risposta a un Sos, il risultato obbligato di mesi di escalation fra superpotenze guidate da due leader che, oggi, non sono super-potenti. Al tavolo virtuale delle trattative, preparato da mesi, Biden e Xi sono arrivati con il fiato corto.
Il primo indebolito dai sondaggi, mai così neri per un presidente al primo anno; dall’ostruzionismo al Congresso, che ha partorito dopo un lungo tiro alla fune il piano sulle infrastrutture, e dall’ombra di faticose elezioni di mid-term. Il secondo alle prese con una transizione storica, letteralmente: con il Plenum del partito ha riscritto la storia cinese e si è proiettato verso la rielezione al Congresso del 2022, altri cinque anni alla guida indiscussa dello Stato-impero.
Ma la Cina arranca, fra crisi finanziaria e una politica di ferreo autoisolamento per scongiurare una nuova ondata di Covid. Fin qui il piano interno. Poi c’è quello esterno: non c’è un aspetto della politica internazionale, oggi, che non sia plasmato dalla “competizione estrema” (copyright Biden) fra i due blocchi.
Una competizione che non può e non deve varcare alcune “linee rosse”, dice a Formiche.net Richard Fontaine, direttore del Centro per una nuova sicurezza americana (Cnas), rilevante think tank di Washington DC. “Il contatto di lunedì ha avuto due obiettivi. Il primo è riaprire i canali di comunicazione tra Biden e Xi, un’esigenza particolarmente pressante da quando la Cina si è definitivamente trasformata in un Paese one-man-rule. Il secondo è iniziare a costruire una serie di guardrails da non oltrepassare nella competizione Usa-Cina”. Il video-incontro è stato allora tanto risolutivo, “le aspettative erano modeste e infatti non c’è l’ombra di nuovi negoziati”, quanto necessario, spiega l’esperto.
Ultimamente i contatti si sono fatti rari, a tratti inesistenti. In America diplomazia e intelligence l’hanno ribattezzata “sindrome bunker”. La chiusura della Cina al mondo esterno fa paura. Perché quando non si parla, il rischio di un equivoco, o meglio di un incidente, è molto più alto. “Serve avviare una serie di dialoghi sulla stabilità strategica, alla luce dell’arsenale nucleare cinese in rapida espansione e al recente test di un veicolo ipersonico orbitale. In questi anni il dialogo fra Stati Uniti e Cina sulle questioni nucleari è stato molto sottosviluppato. Bisogna chiedere a Pechino di essere più trasparente sul suo status e i suoi obiettivi di quanto non sia stata in passato. Procedere su questo fronte sarebbe un buon segnale”.
Sullo sfondo c’è il plenum cinese, la definitiva svolta totalitaria di un presidente-segretario che deve stringere la morsa sul Paese come sul partito: “Più della metà” dei membri Politburo, ha scritto su War on The Rocks Nan Li, “non può essere identificata come protegés di Xi”. “La combinazione di potere, autoritarismo e ambizione della Cina oggi pone gli Stati Uniti di fronte a una sfida senza precedenti – nota Fontaine – in queste condizioni, l’egemonia cinese in Asia e in altri regioni del mondo mina gravemente gli interessi strategici e i valori americani”.
Fra tutte le micce che possono accendere lo scontro ce n’è una imbevuta di benzina: Taiwan, l’isola autonoma che Xi vuole riannettere alla Cina continentale, costi quel che costi. I continui blitz aerei cinesi sui cieli di Taipei hanno recentemente alzato l’asticella del rischio. Confermato nel nuovo, atteso rapporto della Commissione Usa-Cina per la revisione economica e di sicurezza del Congresso americano: “È oggi meno certo che le forze militari convenzionali americane da sole possano convincere i leader cinesi a non iniziare un attacco contro Taiwan”, si legge nel documento. Per Fontaine il rischio c’è, ma “non è immediato”. “Nessuno può escluderlo. Ma in questo momento non c’è una parte che possa permettersi una guerra per Taiwan”.
L’Indo-Pacifico resta nondimeno il quadrante geopolitico più caldo. Dove la Casa Bianca di Biden, fresca dell’annuncio di Aukus, il patto militare con Australia e Regno Unito, ora vorrebbe vedere un più concreto coinvolgimento degli alleati europei. Questa amministrazione vuole vedere una nuova convergenza transatlantica su tanti fronti: Taiwan, tecnologia, militare, diritti umani – dice il direttore del Cnas – è convinta che il miglior modo per fare i conti con la Cina sia da una posizione di forza multilaterale. E senza gli alleati in Europa non può portare a termine il piano”.