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Un piano serio per rilanciare l’Italia dei piccoli comuni

Nella nuova finanziaria sono state inserite riduzioni delle imposte agli esercenti, per agevolare il turismo e contrastare lo spopolamento dei comuni, la maggior parte dei quali ha meno di 5000 abitanti. Le strade sono due: o si costruisce una strada politica ed economica specifica per queste realtà territoriali, o si decide che, in fondo, 5000 abitanti sono troppo pochi e allora i comuni si uniscono. Il commento di Stefano Monti, partner di Monti & Taft

I comuni italiani sono 7904. Di questi, i comuni con meno di 5.000 abitanti sono 5.511; quelli con meno di 10.000 sono 6.694 e quelli con meno di 15.000 abitanti sono 7.170.

Quindi, per essere precisi, i comuni italiani con più di 15.000 abitanti sono, in totale, 734. La questione demografica italiana può quindi essere così riassunta: circa il 10% del totale dei comuni ospita circa il 60% della popolazione italiana.

Questo asettico calcolo Excel rivela una delle più grandi sfide del nostro immediato futuro: in che modo favorire lo sviluppo del Paese? Quali “cittadini” tutelare? La maggioranza del 10% o la minoranza del 90% dei comuni?
Su questo punto, è lecito credere che non solo l’attuale esecutivo, ma l’intera classe politica non abbia ancora maturato un’opinione consapevole.

Molte delle politiche industriali ed economiche italiane sono rivolte al potenziamento dei grandi centri urbani. Al contempo, però, non mancano iniziative che guardano con attenzione ai piccoli comuni.

Questo serve, più o meno, a definire una linea di “continuità”, ma che non mostra un “percorso”, una “visione politica” definita.

Ha fatto notizia la previsione, all’interno della bozza della nuova legge finanziaria, di una misura volta a ridurre le imposte degli esercenti attivi nei piccoli comuni per “favorire il turismo dei comuni interni” e a “contrastare il loro spopolamento”. Una misura di questo tipo è sicuramente importante nell’immediato, ma del tutto irrilevante sul piano strategico.

Non si tratta semplicemente di “tagliare l’Imu”, si tratta di capire se, per davvero, il nostro Paese intende mettere in campo strategie che consentano la crescita dei Comuni Interni per evitare che il tessuto sociale su cui si è costruita maggiormente la nostra “comunità” vada disperso.

È una strada che condiziona, e non poco, una serie molto ampia di riflessioni: assumere, in modo chiaro, che l’Italia lavorerà, nei prossimi 10 anni, affinché il Paese possa essere abitato in modo più omogeneo, significa veicolare (e rendere intelligenti) una serie di investimenti su aree ad oggi ancora poco inflazionate. Significa dire al comparto immobiliare e infrastrutturale, che le piccole frazioni potranno essere un potenziale investimento redditizio nel prossimo futuro. E questo significa incrementare l’occupazione almeno su due – tre settori cardine del nostro Paese.

Perché una tale strategia possa essere condotta, tuttavia, di certo non potrà basarsi su uno sconto sulle tasse per coloro che “resistono” nel piccolo comune. Sarà necessario che ci siano riflessioni e interventi seri che rendano sostenibile e “contemporaneo” vivere in un comune che dista almeno 30 minuti d’auto dalla città più vicina.
Significa ragionare sullo smart-working in modo strutturale, che consenta alle persone di poter vivere lontano dalle nostre brutte periferie, ma continuando a lavorare per la stessa società. Significa al contempo incrementare il potere d’acquisto dello stipendio percepito (1000 euro a Milano sono sicuramente lontani dai 1000 di un comune molisano).

Ma non di solo lavoro, vogliamo vivere: servono spazi di interazione sociale, servizi di prima necessità, venues culturali che possano consentire alle persone di avere anche dei consumi culturali.

Si tratterebbe, in altri termini, di una vera e propria “politica”, che troverebbe sicuramente interessati molti dei comparti industriali italiani e molti investitori internazionali.
Ma è solo una delle possibili scelte.

L’altra strada è quella di “puntare” sui grandi centri urbani. Ridurre quindi i costi amministrativi semplicemente fissando un numero minimo di abitanti che un territorio debba avere per essere considerato “comune”, accorpando le differenti frazioni e le differenti realtà comunali minori.

L’unione di tali comuni (era un tema in voga qualche anno fa), potrebbe generare economie altrettanto interessanti, che vanno però nella direzione opposta a quella del “ripopolamento”.

Il punto è che la scelta che attualmente viene condotta dal nostro Paese, più che tra “ripopolamento” e “accorpamento” pare essere quella di “evitare lo spopolamento”.

In altri termini, aiutare gli agonizzanti ad agonizzare meno. Tra tutte le strade, forse quella meno efficace.


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