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Cop26, Carney mette sul piatto 130 mila miliardi per la transizione verde

Nel periodo della presidenza anglo-italiana di Cop26 è cresciuto a dismisura il numero di aziende finanziarie che hanno promesso di allineare i propri portfolio agli obiettivi climatici. Ecco come si muove la Glasgow Financial Alliance for Net Zero, il gruppo di enti privati che ha promesso di mobilitare i miliardi necessari per la decarbonizzazione

Oltre 130 mila miliardi di dollari in capitali privati per salvare il pianeta. È quanto simboleggiato dalla Glasgow Financial Alliance for Net Zero (Gfanz), una gigantesca coalizione di compagnie nata ad aprile e guidata dall’inviato Onu per la finanza climatica, Mark Carney (già governatore delle banche centrali canadese e inglese), i cui partecipanti si sono impegnati a trasformare l’economia globale per raggiungere zero emissioni nette entro il 2050.

Mercoledì alla Cop26 di Glasgow si è parlato di come tradurre la volontà di decarbonizzare in azione mobilitando i soldi. Il ministro delle finanze Rishi Sunak ha aperto la giornata reiterando la promessa dei Paesi del G20 di indirizzare 100 miliardi di dollari all’anno verso le economie emergenti per aiutarle con la transizione verde (cifra che si deve ancora materializzare) e ha parlato di una “revisione” del sistema finanziario globale.

Dopodiché Sunak ha annunciato i progressi sul lato del settore privato, da cui possono arrivare il 70% dei fondi necessari per la transizione secondo gli ultimi rapporti Onu. “Se si riesce a portare dentro i capitali privati nella lotta al cambiamento climatico, ci si accorge che non ci sono vincoli finanziari”, ha detto lunedì il premier Mario Draghi, sollecitando l’aiuto del settore pubblico nella suddivisione dei rischi.

Cos’è e cosa ha ottenuto la Gfanz

Intanto il settore privato si è mosso. La Gfanz ha annunciato che nel periodo della presidenza anglo-italiana della Cop26 i fondi impegnati per net zero sono passati da 5 a 130 mila miliardi di dollari. Il calcolo si basa sull’apporto dichiarato di 450 aziende sparse tra 45 Paesi e svariati settori finanziari – tra cui banche, fondi pensione, assicurazioni, borse – che richiederanno a sé stesse e alle realtà in cui investiranno di ridurre le emissioni in linea con gli obiettivi climatici.

Queste società (tra cui figurano BlackRock, HSBC, Morgan Stanley, Deutsche Bank e Santander) dichiareranno ogni anno progressi e quantità di emissioni finanziate e si sottoporranno a una verifica ogni cinque anni. La coalizione ha anche studiato 24 direttrici da adottare per “trasformare l’architettura finanziaria” integrando e ridimensionando la rendicontazione climatica, la gestione del rischio climatico, il rendimenti degli investimenti legati al clima e la mobilitazione dei finanziamenti privati alle economie emergenti.

A questi sforzi si aggiunge quello della Fondazione Ifrs (l’organismo internazionale per i principi contabili), che ha istituito un ente – l’International Sustainability Standards Board – per sviluppare standard globali informativi sul clima e sulla sostenibilità più ampi per i mercati finanziari. “Questo lavoro è stato accolto con favore dai ministri delle finanze di oltre 50 Paesi in 6 continenti”, si legge nel comunicato Gfanz, “e segue il sostegno del G7 e altri [Stati] per rendere obbligatorie le rendicontazioni legate all’impatto climatico”.

“Ora abbiamo l’impianto di base per spostare il cambiamento climatico dai margini della finanza all’avanguardia in modo che ogni decisione finanziaria tenga conto del cambiamento climatico”, ha commentato Carney.

Il nodo energia e i Paesi emergenti

Va rilevato che a ottobre proprio le banche aderenti alla Gfanz hanno opposto resistenza alle misure decarbonizzanti più drastiche, come la richiesta dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) di interrompere subito tutti i nuovi finanziamenti in combustibili fossili. La scelta ha attirato le condanne di diversi gruppi ambientalisti, secondo cui – in linea con le previsioni dell’Iea – questo sarebbe l’unico modo realistico di limitare il riscaldamento globale a 1,5° rispetto ai livelli preindustriali.

I partecipanti della coalizione hanno adottato i criteri meno stringenti dell’Ipcc, il consesso di scienziati internazionali sul cui lavoro si fonda la Cop di quest’anno. Difficile dar loro torto: tutti i Paesi, che siano in piena transizione verde o meno, non possono ancora fare a meno degli idrocarburi. Questo vale specialmente per quelli in via di sviluppo, dove milioni di persone non hanno nemmeno accesso all’elettricità (e dunque a servizi di base e alla possibilità di uscire dalla povertà) e dove gli effetti del cambiamento climatico tendono a essere più devastanti.

Alla richiesta di decarbonizzarsi i Paesi emergenti rispondono facendo notare che lo sviluppo dei Paesi industrializzati è avvenuto a spese dell’ambiente, dunque il “debito” climatico di questi ultimi pesa ben di più e starebbe a loro finanziare la transizione verde. Si tratta di uno dei temi fondamentali della Cop di quest’anno. Da parte loro, le aziende della Gfanz si sono impegnate anche ad aumentare il flusso di capitali privati verso i Paesi in via di sviluppo.



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