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Etiopia come i Balcani. L’Europa agisca. La roadmap di Riccardi

Intervista al fondatore della Comunità di Sant’Egidio. In Etiopia una catastrofe umanitaria, abbiamo creduto ai Nobel e alla pace e ci siamo sbagliati. Ora l’Europa agisca, la guerra civile è alle porte. Uno Stato fallito è un rischio troppo alto, per tutti

Poche decine di chilometri separano ormai da Addis Abeba le prime linee dei ribelli del Fronte popolare di liberazione del Tigrai. Pochi giorni, settimane al massimo, restano prima che l’Etiopia sprofondi definitivamente in una guerra civile. La precarietà in cui versa il governo federale guidato da Abiy Ahmed, che il 2 novembre ha lanciato un appello alla popolazione civile per prendere le armi contro i ribelli, è il triste preludio di una catastrofe umanitaria. Solo due anni fa Ahmed veniva insignito del premio Nobel per la Pace per l’accordo di riconciliazione siglato con l’Eritrea, dopo vent’anni di violenze. “Avevamo creduto a una stagione di pace, oggi la realtà ci costringe a un brusco risveglio”, dice a Formiche.net Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio.

Cosa insegna il dramma etiope?

L’Africa ci riserva sempre sorprese. Abbiamo raccontato la storia di Abiy, il premio Nobel che avrebbe innovato la politica etiopica. Abbiamo creduto a una stagione di pace dopo quell’accordo da lui firmato insieme a Isaias Afwerki, che sembrava metter fine a un dissidio lungo vent’anni.

Aspettative deluse.

Drammaticamente. L’Etiopia versa in una grave crisi politica e umanitaria. Eppure è sempre stato uno dei Paesi più stabili dell’Africa, tra i fondatori dell’Unione Africana, che ha sede ad Addis Abeba. Un Paese indipendente, fatta eccezione per il penoso periodo di occupazione fascista. Ma soprattutto un Paese ospitale verso i profughi della regione, somali, eritrei, sudanesi. Addis Abeba è una metropoli multietnica, in cui Tigrini, Amara, Oromo vivono insieme.

Come si spiega allora la nuova guerra civile?

Questo dramma è dovuto all’isolamento del Tigrai. I tigrini sono una minoranza egemonica, la spina dorsale del Paese. Si sono sentiti isolati, e hanno reagito militarmente. Abiy ha chiesto l’intervento di eritrei stranieri, ci sono stati episodi di grande violenza, oltre a una grave carestia. Portare aiuti umanitari nella regione oggi è un’impresa impossibile.

Il governo è assediato. I ribelli dicono di essere alle porte di Addis Abeba.

I tigrini si stanno avvicinando. L’appello alle armi lanciato da Abiy tradisce la situazione drammatica in cui versa il governo. Ora il rischio del caso è concreto. Addis Abeba è una città complessa, piena di sfaccettature. Nell’ultimo anno le armi hanno dimostrato di non risolvere nulla.

Quindi?

Troppo sangue è stato versato. L’assedio della città avrà solo un esito: un massacro. L’unica soluzione è il dialogo, l’Europa deve fare la sua parte prima che sia troppo tardi.

La comunità internazionale ha fatto troppo poco?

Sì, e sono molto preoccupato. L’Etiopia dimostra che è finito il tempo delle potenze regolatrici, delle Guerre fredde. Viviamo in un mondo a pezzi, senza processi di unificazione. Gli Stati Uniti hanno fatto sentire la loro voce, spero che intervengano per scongiurare un bagno di sangue.

Nel novembre del 2020 Abiy lanciava la campagna contro i tigrini. Doveva durare poche settimane, è durata un anno.

La guerra è stata un’avventura folle per il governo centrale, per i tigrini e per l’ Etiopia. Ha portato alla devastazione del Tigrai, incluso il suo straordinario retaggio storico e artistico. Oggi il Paese rischia di trovarsi balcanizzato. I tigrini hanno una grande capacità di resistenza e combattimento, gli Oromo sono solo in parte schierati con il governo. La guerra del tutti-contro-tutti è dietro l’angolo.

Così come il rischio di uno Stato fallito nel cuore dell’Africa. L’Europa ne è consapevole?

Troppo poco. Questo è il vero banco di prova per dimostrare l’esistenza di una politica estera forte e unitaria, di una Difesa comune. L’Europa deve allargare lo sguardo oltre il Mediterraneo. Anche qui, in Etiopia, si gioca il suo futuro.

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