Alla luce della situazione sul terreno sono poche le speranze che si possa arrivare ad un cessate il fuoco secondo il direttore dell’Institute for Global Studies
La crisi in corso in Etiopia sembra destinata a peggiorare. Non solo sono ridotte al lumicino le speranze di un cessate il fuoco, come denunciato oggi dall’Unione Africana, ma è forte il pericolo che la crisi una volta terminata all’interno del Paese possa provocarne altre nei paesi vicini con conseguenze che potrebbero arrivare fino a casa nostra. È questa l’analisi di Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies.
Quante sono le possibilità che si possa arrivare ad un cessate il fuoco in Etiopia?
In questo momento c’è una combinazione di fattori sul terreno che lascia poche speranze per un cessate il fuoco. Il governo del premier Abiy Ahmed non può permettersi di interrompere le operazioni belliche perché i primi a violare la tregua sono stati i tigrini, con tutte le ragioni del caso da parte loro, e poi perché è in corso un’avanzata con i ribelli che hanno iniziato a cingere d’assedio Addis Abeba, anche se non è chiaro se vogliono entrare o meno in città.
Quali sono gli altri motivi che impediscono in particolare ai ribelli del Tigrey di fermare la loro offensiva?
I tigrini hanno non solo il risentimento per ciò che è accaduto in passato ma anche la necessità di liberare metà del loro territorio che è ancora occupato dalle milizie Amara e in parte dalle forze eritree. Loro sono bloccati in un una sacca e per questo sono scesi verso l’Oromia. Si trovano quindi in un’area chiusa e inaccessibile e per ricevere aiuti devono espandere il controllo territoriale.
Qual è il peso delle alleanze che si stanno formando sul terreno tra le varie forze armate e milizie?
Al momento nessun attore presente sul campo può permettersi di interrompere il conflitto per varie ragioni, ma le alleanze di cui si sente parlare e che si sono formate durante questo conflitto sono aleatorie. L’annuncio della nascita di una coalizione di forze intorno ai tigrini con 9 organizzazioni politiche e armate ha una valenza relativa. Infatti una di queste formazioni si è già staccata, mi riferisco all’Esercito di Liberazione del Popolo di Gambella i cui leader hanno disconosciuto il comunicato di adesione alla nuova alleanza, ma va considerato anche che il resto dei gruppi sono formazioni molto piccole.
Ci sono anche ostacoli di tipo politico e di visione del futuro del Paese che impediscono un cessate il fuoco al momento in Etiopia?
Il primo è che il Tigray non fa mistero di volere l’indipendenza tramite un referendum. Il problema è grosso perché la costituzione dell’Etiopia prevede la possibilità di ottenere la secessione come diritto costituzionale e loro vogliono arrivare proprio a questo. Però l’ipotesi di indipendenza del Tigray spaventa la gran parte degli altri stati federali, perché una federazione che si disgrega li renderebbe piccoli stati poverissimi e deboli a livello regionale. Il secondo problema riguarda il forte risentimento dei tigrini nei confronti dell’Eritrea e il fatto che hanno bisogno di uno sbocco sul Mar Rosso. Quindi l’Eritrea sarà un nuovo fronte di guerra quando si risolveranno i rapporti interni in Etiopia.
Qual è il ruolo dell’Italia e dell’Unione europea in questa crisi?
Mentre l’Unione europea ha un rappresentante speciale e un team impegnato nei negoziati, anche se il suo ruolo non è efficace, l’Italia risulta assente in questa crisi. Mentre l’Ue ha una struttura che si occupa di Corno d’Africa che è sul posto e sta facendo dei tentativi di mediazione, l’Italia ha un problema enorme nella regione perché la nostra politica è inesistente e vengono al pettine i nodi di molti anni di disinteresse e di mancanza di programmazione come per la Somalia e l’Eritrea. Se andiamo a guardare gli attori negoziali dei tentativi internazionali di gestire la crisi l’Italia è il grande assente mentre, come accade in Libia, i grandi attori di queste dinamiche di crisi sono diventati attori terzi come gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia e il Qatar. Anche qui siamo in balia di una serie di nuove dinamiche politiche dettate da Paesi piccoli e ricchi ma con agende chiare.
Quali sono quindi i pericoli per noi derivanti da questa crisi?
Non abbiamo nessuno impegnato nella gestione degli sforzi diplomatici per cercare di comporre gli interessi di questa crisi e non stiamo facendo alcuna pianificazione sul dopo. Questa crisi non si esaurirà nello scontro da Abiy e i tigrini ma avrà uno sviluppo nella regione. Ci sono tante dinamiche urgenti come il rapporto tra Kenya e Somalia, da dover affrontare ma in nessuna di queste crisi noi giochiamo alcun ruolo e questo è un problema grave. C’è quindi l’esigenza di definire una politica nazionale per il Corno d’Africa perché questa crisi finirà per pioverci addosso e avrà degli effetti politici deleteri sulla nostra narrativa interna in quanto ci saranno nuovi flussi di profughi ed è pericoloso non occuparsene.