Dietro al rumore dei fucili e dei colpi di mortaio, c’è un’altra guerra che si combatte in Etiopia. Tra propaganda e fake news, governo e ribelli cercano di catturare il favore dell’opinione internazionale. A qualunque costo
Continua ad aggravarsi il conflitto etiope, combattuto anche a colpi di fake news. La propaganda di notizie inattendibili dilaga su Internet e nei social network, accusati di fomentare i discorsi d’odio e le tensioni interetniche con la solita omissione di moderazione. Un processo che va a corroborare una storia di ostilità senza fine.
In una guerra in cui l’accesso degli organi di stampa internazionali al Tigray è soggetto a pesanti restrizioni, il fact checking è particolarmente arduo. Così, le piattaforme online sono diventate un nuovo inedito campo di battaglia.
Da un lato, gli affiliati al Fronte di Liberazione Popolare tigrino (TPLF), gli attivisti, alcune note Ong e gruppi internazionali di advocacy stanno conducendo da ogni parte del mondo una campagna di manipolazione dei fatti di cronaca per orientare l’opinione pubblica verso la loro causa, enfatizzando i profili umanitari del conflitto e nascondendo fatti scomodi, ovvero creando dal nulla una copiosa narrativa di disinformazione.
Dall’altro lato, gli stessi esponenti del governo etiope hanno lanciato una controffensiva mediatica per porre nel discredito qualsiasi post che andasse contro la linea governativa.
In un simile contesto, la stampa dei Paesi occidentali non sta facendo una bella figura. L’ultimo sospetto imbroglio, in ordine cronologico, è denunciato da quello che sembra essere a tutti gli effetti un istituto di fact-checking di creazione governativa, denominato Ethiopia Current Issues Fact Check. ECIFC replica a Reuters che ha diffuso la notizia, ad oggi non ritrattata, che lo stato d’emergenza proclamato dal Primo Ministro Abiy Ahmed costringerebbe i cittadini etiopi a detenere documenti di identità da cui risulterebbe la loro appartenenza etnica. Un’informazione, a detta di EICFC, priva di fondamento, poiché gli unici documenti dichiarativi dell’etnicità dei titolari erano in uso presso alcune municipalità ma sarebbero oggi caduti in desuetudine.
Se evidenti motivi spingono ad avere un atteggiamento di cautela verso l’attendibilità di un fact-checking di conclamata partigianeria, meno dubbi possono destare le notizie false disseminate dalla CNN, con una tale cadenza da spingere migliaia di etiopi a riunirsi ad Addis Abeba e a Washington per manifestare contro la celebre testata informativa.
Tanto è stato lo scalpore per i titoli allarmisti e ingannevoli circa un imminente assalto alla capitale da parte dei ribelli. Solo giorni dopo arriva la correzione del tiro, nel testo di un articolo artatamente e retroattivamente modificato, che spiegava che detto assalto era rivendicato da “anonimi ribelli” ma che la CNN “non aveva potuto verificare tali informazioni”.
Non sfugge a nessuno, però, come le modalità di condivisione delle notizie sui social network si basino principalmente sulla lettura dei soli titoli di apertura. Modalità che, oltre a impoverire gli stessi contenuti dell’informazione, sta spingendo i titolisti ad osare troppo. Abbindolare gli utenti, significa, infatti, ottenere più content sharing, con buona pace della deontologia professionale.
Questa bomba di inesattezze mediatiche non fa altro che far piovere sul bagnato: mentre le efferatezze dei ribelli vengono insabbiate, lo stesso Abiy è passato in una certa narrativa mediatica da eroe per la pace, incensato nel 2019 con il Nobel, a bieco genocidario: una visione distorta che rischia di influenzare le sorti del processo di pace.
L’Unione Europea sta discutendo da mesi l’adozione di sanzioni contro il Governo etiope, ma gli Stati Membri sembrerebbero ancora incerti sull’effettiva utilità di impiegare tale strumento, che rischierebbe di compromettere l’influenza europea per compiacere alcune ONG.
Al di là dell’oceano, il Segretario di Stato Usa Antony Blinken, si è detto “molto preoccupato” che la situazione in Etiopia possa implodere. Mentre si stanno portando avanti difficili tentativi di mediazione nella ingravescente crisi, Biden ha inflitto le prime sanzioni alla vicina Eritrea. L’amministrazione di Washington ha deciso di colpire per prima Asmara e il suo esercito per tentare di arginare le interferenze destabilizzanti del Paese sull’Etiopia e convincere il Governo di Addis Abeba e i leader del TPLF a sedersi ai tavoli di discussione per negoziare un cessate-il-fuoco.
Destinatari delle misure di congelamento dei beni e degli assetti finanziari negli Stati Uniti sono l’Esercito eritreo, colpito da gravissime accuse di crimini di guerra (saccheggio, abusi sessuali, uccisione di civili e blocco degli aiuti umanitari), il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, il partito unico eritreo impegnato in un’attività di interferenza alla crisi etiope attraverso l’emanazione di ordini diretti all’esercito; Abraha Kassa Nemariam, capo dei Servizi Segreti e complice delle ingerenze sulla guerra etiope; Hidri Trust, la holding di tutte le entità economiche legate al partito eritreo e strumento attivo nelle mani del Governo; Red Sea Trading Corporation, società che gestisce gli aspetti finanziari legati al partito unico, controllata da Hagos Ghebrehiwet Kidan, anch’egli sottoposto all’asset freeze.
Nel frattempo, per la prima volta sembra aprirsi uno spiraglio per intavolare delle trattative per una cessazione delle ostilità, come dichiarato dalla Rappresentante Speciale UE Weber in un’intervista sulla CNN (che, però, nei sottotitoli – sic! – faceva intendere il contrario): Governo e ribelli continuano nelle loro schermaglie mediatiche, ma sottotraccia si sta lavorando a dei meccanismi per costruire la fiducia.
Secondo un paradosso formulato da Ernst-Wolfgang Böckenförde nel 1967, lo Stato liberale vive di presupposti che non può garantire: così, dunque, le fake news sembrano la più massiccia provocazione della storia contro la libertà d’espressione nell’era di Internet. Le gravi tensioni che affliggono il Corno d’Africa si ramificano, insinuandosi negli stati liberaldemocratici e nutrendosi dei vuoti normativi che minano la stabilità delle nostre fondamenta giuridiche. Un nuovo capitolo si aggiunge, quindi, alla saga della disinformazione, con conseguenze potenzialmente gravissime, e non solo per le popolazioni affamate del Tigray.