Padre Giulio Albanese, comboniano, a lungo missionario in numerosi Paesi africani, è una delle poche bussole per cercare di orientarsi nel disastro del Corno d’Africa. Dalle sue parole sul conflitto si percepisce che un altro rischio si potrebbe affacciare in Etiopia: le infiltrazioni di gruppi jihadisti
“Se si arrivasse al disfacimento dell’Etiopia sarebbe come un’esplosione atomica”. Padre Giulio Albanese, comboniano, a lungo missionario in numerosi Paesi africani, è una delle poche bussole per cercare di orientarsi nel disastro del Corno d’Africa. La tentazione semplificatrice è sempre dietro l’angolo quando si prova ad entrare con poca esperienza in un mondo variegato e complesso e piombato da un anno in una crisi sanguinosa e sanguinaria, tremenda.
Ma il suo ragionamento aiuta a trovare dei bandoli, non uno solo, per avventurarsi nel viaggio. Il primo è l’errore americano; la sottovalutazione dei tigrini. Quando il primo ministro etiope, Abiy Ahmed Ali, trovò la via dell’intesa con l’Eritrea ponendo fine al loro lunghissimo e sanguinosissimo conflitto, gli americani diedero una sorta di disco verde all’intesa di cooperazione anche militare tra Addis Abeba e Asmara che non poteva che essere ai danni dei tigrini. Il Tigrai è stato la principale vittima del conflitto con l’Eritrea, ne ha pagato il prezzo perché confina con l’Eritrea e loro, i tigrini, sono stati l’ossatura dell’Etiopia da quando combatterono e sconfissero il regime dittatoriale di Menghistu.
Albanese sa bene che il merito nazionale di aver liberato l’Etiopia da quella tirannide si somma al demerito di aver governato da allora in avanti non certo con il guanto di velluto. Per questo l’arrivo del non tigrino Abiy fu una vera svolta. Ma la loro determinazione e il loro peso politico avrebbero dovuto indurre a maggiore prudenza soprattutto considerando che Abiy Ahmed Ali oltre a non essere tigrino è un Oromo atipico, non corrisponde neanche a questa etnia da sempre insoddisfatta che dal sud ora minaccia Addis Abeba sempre nel nome di quella maggiore autonomia che da sempre rivendica. Le truppe tigrine che marciano dal nord e quelle oromo che marciano su Addis Abeba dal sud non hanno un progetto comune, ma certo creano un contesto che non può essere diviso né considerato altrimenti: gravissimo per la tenuta del governo centrale e federale. La vera base di Abiy per padre Albanese sono gli Amara, l’Etnia predominante nel centro, nella regione di Addis Abeba, e che ora tigrini dal nord e ribelli Oromo dal sud minacciano, senza un piano comune che lui non ritiene verrà, sebbene aggiunga che nessuno ha la palla di vetro.
L’altro bandolo, ovviamente, è il Nilo, e quella grande diga che Abiy vuole costruire mettendo in allarme Egitto e Sudan. Il golpe in Sudan è chiaramente legato ai timori egiziani per la diga e al-Sisi ha certamente aiutato l’emergere di un regime militare che con lui faccia fronte comune davanti all’espansionismo idrico di Addis Abeba. Inoltre dal punto di vista egiziano la fedeltà del Sudan assicurava una linea di rifornimento di armi e munizioni ai confinanti tigrini. Il loro ritorno al potere ad Addis Abeba offrirebbe al Cairo e a Khartoum un interlocutore amico, più malleabile sulla questione vitale dell’acqua.
È dunque tra storia di rivalità etniche e peso del Nilo per tutti che si gioca una guerra che però potrebbe sfuggire di mano e gettare nel caos tutto il Corno d’Africa, dove i cinesi ad esempio hanno fatto enormi investimenti e difficilmente potrebbero lasciar correre.
A fianco a tutto questo padre Albanese non può trascurare le atrocità commesse da tutti i soggetti coinvolti in una escalation militare che durata ormai da un anno e che ora vede i tigrini e gli oromo marciare separatamente su Addis Abeba. Atrocità commesse dagli eritrei, dai tigrini, dai governativi, da tutti. Anche dai golpisti sudanesi, che sono accettati dal Cairo sebbene tra di loro ora si veda una spaccatura tra i generali, fedeli al vecchio tiranno Bashir, e il potente capo delle milizie janjaweed, che sono diventate tristemente note nel mondo per la loro ferocia nella repressione nel Darfour. Se tutti i civili avevano diritto ad essere difesi, nessuno di questi signori gli appare meno peggio degli altri. Non certo l’eterno uomo forte dell’Eritrea, feroci in patria come fuori dai patri confini, non i capi tigrini, che è importante capire ma non giustificare. Forse il premier Abiy portava un consenso e una visione diversi, ma i capi militari lo hanno coinvolto in atrocità terribili. Tutti hanno autorizzato o consentito comportamenti inaccettabili ai danni dei civili.
Albanese non lo dice, non può dirlo, ma dalle sue parole si percepisce che un altro rischio si potrebbe affacciare in Etiopia, ed è quello che la crescita della popolazione islamica può portare da una parte identitarismo settario cristiano, dall’altro infiltrazioni di gruppi jihadisti. Sono due frutti avvelenati dell’uso distorto della fede in contesti di guerra e ferocia etnica. Nessuno è pulito, nessuno è il solo colpevole, ma pensare allo sgretolamento della federazione etiope è un incubo che non può neanche considerare. Probabilmente il calcolo egiziano si limita a vedere un interlocutore meno preoccupante ad Addis Abeba, come sarebbe un governo di ribelli tigrini. Ma tutto è mobile, purtroppo, intorno alle acque del Nilo dove si gioca una partita di un caldo infernale.