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Cosa ci ha insegnato la storia della Ever Given a Suez?

Il cargo bloccato a Suez ha mostrato come le necessità dei consumatori spesso mettono sotto pressione commerciale le aziende di trasporti creando ulteriori vulnerabilità alle catene di approvvigionamento globale

Foreign Policy dedica un lungo approfondimento alla vicenda del cargo “Ever Given” e a quanto la sua storia influisca direttamente su molta delle popolazioni mondiale — ossia sulle supply chain che la riforniscono. La nave porta container (tra le più grandi al mondo, Classe ULCV) riprende il mare in questi giorni, dopo quattro mesi di riparazione al porto cinese di Qingdao per i danni riportati a Suez. Bloccò il canale dal 23 marzo al 29, poi — una volta disincagliata — fu fermata dalle autorità egiziane nel bacino del Great Bitter Lake per un contenzioso storico il cui indennizzo ultra-milionario non è mai stato divulgato quantitativamente.

Ferma in Egitto, ha atteso altri quattro mesi prima di ripartire sotto la guida di un nuovo equipaggio (quasi tutti indiani), guidato dall’espertissimo capitano capitano Hanse Kurisinkal, guru delle UCLV. Poi una tappa a Rotterdam e Felixatowe per scaricare l’enorme carico (in parte rovinato dal tempo trascorso), infine ancora giù per Suez e Singapore prima di arrivare al bacino di carenaggio cinese. Ogni minuto in cui la Ever Given non seguiva la regolare agenda di marcia segnava un ritardo nella consegna, non solo del suo carico, ma anche dei miliardi di dollari di merci stipati a bordo delle altre navi che si trovavano in fila nell’impossibilità di attraversare uno dei più importanti lineamenti talassocratici al mondo, lo stretto che collega l’Europa (il Mediterraneo) all’Asia (l’Indo Pacifico).

La Ever Given in riparazione

I ritardi della catena di approvvigionamento globale si stanno ancora facendo sentire, sommandosi con tutti problemi prodotti dalla pandemia in questo settore cruciale per la vita dell’uomo sulla terra — tema che al momento va sotto la declinazione “salviamo il Natale”, ossia evitiamo gli scaffali vuoti nel momento dell’anno in cui si fanno più acquisti in Occidente.

I consumatori di tutto il mondo usano sempre più beni, di cui non conoscono provenienza e spostamenti, ma di cui pretendono consegne perfette e immediate. Nel 1975, circa 27 navi al giorno trasportavano un carico medio di 242 tonnellate hanno attraversato il Canale di Suez; nel 2019, erano 52 navi per 3.307 tonnellate. Il raffronto di FP è accompagnato dall’analisi di Cormac Mc Garry della società di consulenza Control Risks: “La preoccupazione più ampia con le megaship è che stiamo riversando volumi altamente concentrati delle nostre catene di approvvigionamento critiche in posizioni vulnerabili, quindi stiamo perdendo la diffusione del rischio. [Questo] lascia le aziende più esposte a eventi singolari e isolati. E non è solo il vento che minaccia di fermare queste navi”.

Il richiamo alla questione sicurezza è altrettanto evidente: un paese intenzionato a interrompere le catene di approvvigionamento, o un gruppo terroristico, potrebbe decidere di prendere di mira un ULCV. Basta pensare che Iran e Israele sono da almeno due anni coinvolti in una guerra ombra che comporta il danneggiamento reciproco delle navi che transitano lungo lo Stretto di Hormuz — la strozzatura del Golfo Persico dove la Marina italiana è presente per missioni di monitoraggio con l’operazione europea “Emasoh”.

Ci sono inoltre aspetti tecnici che rendono queste navi vulnerabili — sebbene, dall’altro lato, rappresentino chiaramente un’enorme risorsa per i traffici di merci globali. Innanzitutto le metodologie di navigazione: la cabina è a prua, lasciandosi dietro circa 250 metri di scafo — aspetto che complica le manovre e il controllo dell’imbarcazione. Poi c’è il vento, come ricordava Mc Garry: la quantità di container imbarcati (circa ventimila) aumenta il peso, ma contemporaneamente l’accatastamento crea un muro che è soggetto alla spinta del vento aumentando l’area di deriva. Questo è successo alla Ever Given, messa di traverso in quel tratto del canale dal vento. Suez è spesso battuto dai venti, e dopo quanto accaduto i capitani stanno pensando di mettere ancora più in valutazione l’attesa — aspettare che migliorino le condizioni meteo significa ritardare con le consegne — contro il rischio.

Spesso a dettare i tempi è la pressione commerciale: i consumatori vogliono le merci, ritardi significano perdite economiche. I consumatori inoltre vogliono prezzi bassi, ma i viaggi e i vettori di viaggio (e la logistica collegata) sono costosi, sicché le compagnie di navigazione devono mantenere le loro tariffe artificialmente basse. Ciò significa impilare sempre più container su navi sempre più grandi. E la pressione commerciale che deriva dai consumatori globali può far sì che gli equipaggi entrino nel Canale di Suez e in altri specchi d’acqua estremamente ristretti anche quando il vento sembra troppo forte, spiega un capitano a Foreign Policy.

“L’Ever Given ha impartito una lezione a tutti coloro che dipendono dalla spedizione: non dare per scontata la tua fornitura costante di merci”, scrive nel suo articolo Elizabeth Braw, columnist di FP ed esperta di “resilience & grayzone defense” all’American Enterprise Institute. “Non lamentarti se un prodotto o un componente arriva in ritardo. È probabile che l’equipaggio si sia comportato in modo prudente, evitando così una disastrosa interruzione della navigazione globale”, chiude. Più  facile a dirsi che a farsi ora che il Natale sta arrivando e difficilmente accetteremo indisponibilità di articoli sugli scaffali. Ora poi che la vulnerabilità delle supply chain si è palesemente mostrata diventando un nuovo potenziale centro per le minacce di diversi attori ibridi o convenzionali tutto appare più complicato.



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