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Ecco quanto rischia l’Italia con Evergrande. L’analisi di Sace

Le imprese italiane che esportano beni in Cina possono avere qualche contraccolpo da un eventuale collasso del gigante cinese, ma si tratta di danni non certo gravi. E comunque per salvarsi il gruppo immobiliare dovrebbe vendere i propri asset

La crisi del real estate cinese fa paura, anche perché è contagiosa (si veda alla voce listini). Rischi concreti che però non devono spaventare le aziende italiane che lavorano nel settore dello sviluppo immobiliare in Cina. L’ultimo Focus On di Sace, intitolato L’elefante nella stanza: peso e squilibri del settore immobiliare in Cina,  vuole essere ottimista, pur sottolineando come “il settore immobiliare cinese si trova oggi in una bolla che dura da diverso tempo, alimentata da riforme volte a stimolare sia investimenti privati nell’edilizia residenziale sia maggiore crescita economica”.

L’analisi, curata dal country risk analys di Sace, Claudio Cesaroni, spiega come “queste politiche, insieme ad alcune peculiarità della domanda di abitazioni, hanno contribuito alla crescita del settore, con l’aggregato real estate e costruzioni stimato al 29% del Pil del Paese”. Ma niente panico. “La crisi di Evergrande, il Grande Rinoceronte Bianco, è lontana dal poter rappresentare il momento Lehman del Dragone: Evergrande non è, infatti, una società finanziaria e i suoi principali investitori istituzionali sono cinesi. La capacità di trasmissione della crisi di liquidità dal gruppo immobiliare cinese ai mercati internazionali è, dunque, molto limitata, complice anche la non completa apertura dei movimenti di capitali nel Paese”.

Rassicurazioni che però non devono lasciare troppo tranquilli, perché un minimo di rischio c’è sempre. Analizzando la composizione dell’export italiano in Cina, le categorie di beni che potrebbero subire una contrazione della domanda riconducibile al rallentamento dell’attività del settore immobiliare rappresentano il 17% delle vendite totali nel Paese nel 2019. Tale percentuale corrisponde, in assoluto, a 2,2 miliardi di euro, pari allo 0,5% delle esportazioni italiane nel mondo.

E comunque, sempre base allo studio, “le imprese immobiliari cinesi presentano elevati livelli di debito (in media, un rapporto passivo/attivo di circa l’80%), risultando così particolarmente vulnerabili a mutamenti della fiducia degli investitori e a strette creditizie da parte del sistema bancario”.

Il caso Evergrande diventa così “un fondamentale banco di prova” sia per la Banca Centrale che per le autorità fiscali cinesi, ma anche per il presidente cinese Xi Jinping. “Se da una parte, infatti, è estremamente importante evitare un fallimento disordinato che andrebbe a impattare negativamente l’intera economia cinese, dall’altra il salvataggio pubblico del colosso immobiliare andrebbe a intensificare il problema di moral hazard che caratterizza il contesto degli investimenti in Cina e risulterebbe contrario alla campagna di redistribuzione della ricchezza portata avanti da Xi”.

Insomma, vista “l’esperienza accumulata dalla Cina in questi anni nella gestione di default e ristrutturazioni di importanti controparti bancarie e immobiliari sarebbe bene che la crisi di Evergrande possa risolversi attraverso una dismissione ordinata dei suoi attivi, senza provocare ferite all’economia del Paese”.

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